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La Grande Fuga raccontata da Deaton

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Steve McQueen nel film "La Grande Fuga"

 

Su consiglio del mio amico Michele Salvati, ad agosto ho letto il libro di un economista che non avevo sentito nominare prima: Angus Deaton. Oggi gli hanno dato il Nobel per l’economia.

Il titolo del libro è “La grande fuga”, nell’edizione originale “The Great Escape”: sì come il film di John Sturges uscito nel 1963. Michele, per invogliarmi, sottolinea la coincidenza. Chi della mia età (quando vidi il film avevo poco più di vent’anni) può aver dimenticato lo straordinario Steve McQueen che gioca con il guanto e la palla da baseball, la sua cavalcata mozzafiato sulla motocicletta per non tornare nel campo di prigionia dal quale era fuggito? E i suoi compagni che si chiamavano James Garner, Richard Attenborough, Charles Bronson, James Coburn, per ricordare solo gli attori più famosi.

Compro dunque il libro e mi immergo. A sottolineare che il titolo del libro è uguale a quello del film non è stata l’astuzia del mio amico; lo stesso Deaton usa il parallelo per presentare il suo lavoro. I prigionieri di guerra in un campo tedesco scavano un tunnel fin oltre i recinti di filo spinato; l’impresa coinvolge tutti i prigionieri, perché tutti aspirano alla libertà, e tutti vogliono dare una lezione ai crucchi. Un certo numero riesce a fuggire, molti saranno ripresi o moriranno; pochi ce la faranno. Ma bastano quei pochi per soddisfare l’orgoglio e la speranza di tutti: “se ce l’ha fatta lui potrò farcela anch’io, la prossima volta”.

Non è solo il titolo; è l’intero racconto del film a offrire una perfetta metafora del resoconto storico-scientifico che Deaton ci propone. La sua ricostruzione comincia dai nostri lontanissimi antenati. Quelle comunità o tribù primitive erano fortemente egualitarie, come ricorda anche Marx; non era la diseguaglianza il loro problema. Mangiavano molte fibre e facevano molti chilometri al giorno; esattamente osserva con umorismo Deaton, quello che ci dicono oggi di fare i nostri medici. Vivevano, però, molto poco e, a parte di che mangiare e di che coprirsi, quando riuscivano a procurarselo, non avevano altro.

Quando capirono o immaginarono che da qualche parte c’era un po’ di più di salute e disponibilità di beni, iniziò “the great escape”. Come nel film, tutti davano una mano; ma non tutti se la sentivano di tentare; lo facevano solo i più audaci. Fra chi ci provava c’erano quelli più forti, quelli più veloci, quelli più fortunati, Alla fine solo pochi avevano successo. Deaton mette in evidenza che chi riesce costruisce comunque delle “teste di ponte” i cui vantaggi, col tempo, si diffondono su chi è restato indietro e anche su chi non si è proprio mosso. Ma non nasconde che tutte le volte (e sono tante) nelle quali l’umanità è stata coinvolta in una “grande fuga” per la salute e il benessere si è prodotta diseguaglianza. A Deaton la diseguaglianza non piace, è convinto che vada contrastata, ma segnala il problema.

Non so se il Nobel gli sia stato dato per delle brillanti equazioni. A me basta la segnalazione di questo problema e l’invito a pensarci. Se lo scritto di un Nobel dell’economia vi fa venire in mente un impasto di formule e di tecnicismi incomprensibili, questo libro sarà una felice sorpresa; la scrittura è semplice, piana, accattivante. Leggetelo. Ne vale la pena.

 

Angus Deaton – La grande fuga salute, ricchezza e origini della disuguaglianza. Ed. Il Mulino  2015 ©, trad. P. Palminiello, pp 384 € 28,00

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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