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Argentana, Lost in Translation

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Hai voglia a fare l’Erasmus a Madrid (ai tempi), viaggiare in America latina, leggere García Marquez e Cortázar in lingua originale e iscriversi a un dottorato all’Università di Buenos Aires.
Poi arrivi qui e ti scontri con ben altro. Con i non detti e i nascosti tra le righe. E ti senti immancabilmente “lost in translation”.

Pelopincho. È una delle parole che mi fanno più ridere. È la marca delle piscine di plastica da mettere in terrazza d’estate. Una sineddoche: il nome proprio per il concetto. Un’istituzione per le estati porteñe.
Rato/ratito. Ovvero, l’uso eufemistico del diminutivo. “Llego en un rato” (“Arrivo tra un po’”) significa che in una mezz’ora c’è speranza di vederlo spuntare. “Llego en un ratito” va tradotto con:  “Mettiti comodo e magna tranquillo, perché si farà notte”.
Asado/asadito. Vedi sopra. Il mitico asado del domingo non ha bisogno di presentazioni. Ma se vi invitano a un “asadito”, sappiate che sono state acquistate provviste per un esercito, che vi spetterà mezza mucca a testa (oltre alle empanadas e al choripán utilizzati per fare un po’ di fondo) e che se vi mettete a tavola alle 13 prima delle 19 non riuscirete ad alzarvi.
Choripán. Crasi delle parole “chorizo” (salsiccia) e “pan”. Non è un alimento dietetico ma costa poco e ti risolve il pranzo (ed è buono).
Bárbaro. Commento positivo a qualsiasi cosa: può essere un film, un letto particolarmente comodo, una persona, uno spettacolo teatrale. Da non confondere con “barbaridad/barbariades”, che ha un’accezione negativa. Un paio di scarpe può costare “una barbaridad” (uno sproposito). E c’è sempre il politico di turno o un amico ubriaco che dice “barbaridades”.
Charlamos/hablamos. “Chiacchieriamo/parliamo”. Equivale al nostro “Ci sentiamo”. Frase molto usata dagli uomini per prendere tempo. Non hanno ancora deciso se vogliono frequentarvi e nemmeno se vogliono venire con voi al cinema il giorno dopo. Non fatevi ingannare da una pedissequa adesione alla grammatica: il tempo non è presente indicativo, ma futuro indeterminato. Se la sua ultima parola è “hablamos”, andate sole o con un’amica, se proprio vi interessa il film. Non commettete l’errore di passare la domenica pomeriggio attaccate al telefono, controllando di tanto in tanto se funziona. Aveva detto “hablamos”, certo, ma senza specificare in che anno. Se ce la fate, rispondete ai suoi inviti con la stessa formula. Anzi, “Lo charlamos”. Fa ancora più nonscialans.
Variante. Occhio al contesto, come diceva sempre la mia prof. di inglese al liceo. Se lui dice: “Tengo ganas de/me gustaría hablar con vos” (“Ho voglia di/mi piacerebbe parlare con te”, in Argentina si usa il “voi” anche tra amici, fidanzati e amanti), la frase assume un significato molto diverso dal generico “hablamos”. Inequivocabile. E di solito in questo caso ha anche già in mente giorno e ora.
Se me complica. “Mi diventa complicato”. Nel senso che “Vorrei, mi piacerebbe tantissimo, ma credimi non ce la faccio proprio a passare/accompagnarti/arrivare puntuale”. Sottotitolo: “Non ne ho voglia ma anziché dirtelo in modo diretto mi piace immaginare complicazioni di tipo borgesiano”. È una scusa addotta soprattutto dagli uomini, che in questo modo si sentono più galanti, si tengono aperta una porta che altrimenti risulterebbe sbarrata dopo un rifiuto esplicito e salvano la propria coscienza immaginandosi vittime di una sorte avversa.
Pero la pasamos linda. “Però ci siamo divertiti”. Si dice tutte le volte che si è perso tempo a cazzeggiare e non si è riusciti a fare quello che si aveva programmato: per mancanza di organizzazione, voglia o perché “se me complica”.
Se le rompió el sentimiento. Dopo il terzo “Se me complica” meglio rassegnarsi. Sembrava una grande passione, invece no. Non è da escludere che nel frattempo il sentimento – o i sentimenti – ve li siate rotti voi.

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FRANCESCA CAPELLI

Sono nata a Bologna, mi sono diplomata al liceo linguistico e ho una laurea in Scienze politiche. Leggere e scrivere sono da sempre la mia passione. Ho iniziato a fare sul serio quando sono entrata all’Istituto per la formazione al giornalismo di Milano. Dopodiché ho lavorato in varie redazioni a Milano: Reuter’s (agenzia di stampa), Grazia, L’Unità, Newton. E dal 2000 ho scelto di diventare giornalista indipendente. Il mio primo libro, “La macchina uomo” (Dami), è stato pubblicato nel 1998. Sono golosa di cioccolato, soprattutto al peperoncino. Sono mancina e me ne vanto. Anzi, è la cosa di me che preferisco. Vivo a BuenosAires dal 2012.

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