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L’UFFICIALE E LA SPIA

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Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso“. Così scriveva lo scrittore francese Émile Zola nel 1898 sul quotidiano L’Aurore in una lettera aperta al presidente della Repubblica. Il suo famoso “J’Accuse” ebbe il merito di riaprire il caso di Alfred Dreyfus, ufficiale dell’esercito, ingiustamente accusato di tradimento. Il film di Polanski (malamente intitolato “L’ufficiale e la spia“) inizia proprio con la pubblica degradazione di Dreyfus: le mostrine e i bottoni strappati, la spada spezzata a metà, tutto cade ai piedi del condannato, privato dei suoi gradi e della sua dignità. Il film ricostruisce con rigore storico l’enorme bolla mediatica che fu organizzata ad arte dagli apparati dell’esercito ai danni dell’ebreo Dreyfus. L’ondata di odio e di antisemitismo che accompagnò la condanna dell’ufficiale e il suo isolamento nell’Isola del Diavolo è documentata dalle piazze scatenate e urlanti “al traditore”. L’unico che si discosta dalla massa ottusamente giustizialista è il colonnello Georges Picquart, che fu peraltro il primo accusatore di Dreyfus, ma che in seguito, scovando nelle prove – false – a carico del militare, riesce a far emergere la frode e l’inganno. In tempi di fake news e intolleranza spalmate sui social, stupisce che alla fine del 1800 ci fossero persone come Picquart e Zola, pronte a pagare di persona (entrambi furono condannati) per difendere la verità e porre rimedio alle ingiustizie. Ma, al di là della storia che tutti conoscono e delle polemiche che accompagnano le uscite dei suoi film, è impressionante come Polanski riesca a imprimere sui volti del Potere tutti i sentimenti più bassi: il vanesio compiacimento di se stessi, la soddisfazione meschina, l’esaltazione falsa di quel Dio, Patria, Famiglia, eletti a baluardo di ogni diversità. Gran premio della giuria al Festival di Cannes, nomination per gli European Awards a Jean Dujardin (che interpreta Picquart), il J’accuse di Polanski è un film che va visto e scandagliato nei minimi particolari, anche nella curiosa immagine di Dreyfus (Louis Garrel), tutt’altro che eroe, anzi, uomo fragile e pusillanime che piagnucola la sua innocenza senza alcuna grandeur. Come a significare che la giustizia va ricercata a ogni costo e per chiunque la meriti. (Costanza Firrao)
Ho aspettato ansiosamente l’uscita di quest’ultimo film di Polanski perché sapevo che, come sempre, non mi avrebbe deluso e infatti così è stato. Una storia intensa girata magnificamente con splendide immagini e un ritmo incalzante soprattutto nella seconda parte che si segue con trepidazione. Sulla vicenda Dreyfus sono già state scritte da Proust pagine appassionanti e sono già stati fatti in passato altri film come “Prigionieri dell’onore” di Ken Russel e “L’affare Dreyfus” di Gore Vidal, ma qui la storia (tratta dal libro di Robert Harris che tra l’altro ha pure collaborato alla sceneggiatura) è raccontata dal punto di vista del tenente colonnello Picquart che non crede alla colpevolezza di Dreyfus e che (senza neanche essergli amico e pur non amando gli ebrei) in nome della giustizia, in quel contesto di depistaggi e falsificazioni, ha il coraggio di sfidare i capi dell’esercito rischiando la sua carriera e la prigione. Questo film tratta temi sempre attuali (il mondo, ahi noi, non cambia mai) in cui, purtroppo, l’opinione pubblica conta più della verità. A questo proposito c’è una frase molto significativa e agghiacciante che dice l’attendente-servo-del-potere con tranquillo cinismo: “Se l’esercito mi ordina di uccidere io lo faccio anche se fosse un errore e non mi sento in colpa”. E qui è inevitabile ricordare quei nazisti che durante i processi contro di loro (come racconta Anna Harendt in “La banalità del male” e come abbiamo visto in alcuni filmati dell’epoca) si stupivano delle accuse loro rivolte perché convinti di non avere commesso nessun crimine ma di avere semplicemente eseguito degli ordini. Bravissimi gli interpreti tra i quali Emmanuelle Seigner sensuale e matronale, unica femmina in un mondo maschile (impressionante l’enorme massa di soli uomini al processo e ovunque, ma non poteva che essere così). S’intravvede per un attimo lo stesso Polansky come faceva anche Hitchcock nei suoi film (qualcuno l’ha riconosciuto?), bellissima la colonna sonora di Alexander Desplat e aggiungo una frivolissima considerazione estetica: peccato che Garrel, per essere più credibile nel ruolo dimesso di Dreyfus sia stato costretto ad essere un omino spelacchiato sacrificando i suoi bei riccioli neri che fanno parte del suo fascino. Concludo invece con una considerazione seria: i grandi film si capiscono già dalle prime inquadrature come i grandi libri che si riconoscono già dalle prime venti pagine e anche stavolta Polanski si riconferma uno dei registi più importanti del mondo. (Giuliana Maldini)
L’Ufficiale e la SpiaJ’Accuse di Roman Polanski – Usa 2019
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