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Racconti Scritture

Miracolo in ascensore

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Con questo si completa la pubblicazione dei tre migliori racconti usciti dal corso di “Scrittura narrativa” tenuto da Valeria Viganò (marzo 2023) – L’Autrice è Ornella Mascoli (La Redazione)

Modalità “Corte dei Miracoli ON”, pensò Priscilla. Attivato il salvavita interno, timbrò il cartellino e fece il suo ingresso negli spazi irrazionali e sproporzionati del palazzone littorio, i cui sterminati corridoi, spesso deserti, invece delle gemelline di Shining vedevano aleggiare ectoplasmi di geometri. L’ufficio che bazzicava da vent’anni era all’ultimo piano, popolato da una fauna assai variegata: volpi, sciacalli, iene, una piccola corte di saprofiti, molti animali da cortile. Incrociò la Barboncina, anziano animale da compagnia di origini nobiliari, schivò il Lustrascarpe, intento a inseguire il suo capo tubando, e si infilò nella cuccia degli Ultimi: l’archivio. La accolsero le urla di Gaetano contro una delle due sordomute cinquantenni, la povera Olga silenziosa, mite, grassa e inerme. E l’altra, Roberta, chiacchierona e volitiva, che aveva “imprto a prlare” nel modo consonantico e saltellante dei sordomuti, e se fingevi di capire ti imponeva di ripetere. Con Roberta nessuno avrebbe osato alzare la voce.
“Dammi la nuca!” il rituale di spegnimento delle ire prevedeva che Priscilla alzasse una mano a coppa, fingendo di voler punire Gaetano.
Lui sorrise come un bambino colto in fallo e si mise a testa bassa per ricevere il finto scappellotto. Era sconcertante vedere un quarantenne un po’ sovrappeso, carico d’ori, testa rasata e look da skinehad, assumere un’aria da scolaretto.
“Coi pelati ce famo er sugo” lo ammonì Priscilla, sorridendo tanto a lui quanto a Olga. Dicevano che il padre di Gaetano, uomo rigido e cattivo, lo avesse educato a suon di botte. Lo skinhead di Torpignattara voleva bene a Priscilla, e lei amava in blocco i suoi sgangherati Ultimi. Ma aveva bisogno di assumerli a piccole dosi.
Decise che, dopo la notte horror che aveva passato, non sarebbe stato opportuno cominciare la sua giornata dadaista senza massicce dosi di caffeina, sia pure quella brodaglia immonda della macchinetta al seminterrato. Ripercorse il funereo corridoio, imboccò con cautela l’ascensore-ghigliottina, schivando la manovra a tenaglia che operava sui lenti e sui deboli, e venne risucchiata al terzo piano dal diabolico macchinario. La porta si aprì sul viso quadrato incorniciato da capelli neri e unti di Aida, l’usciera con la sindrome di Tourette e i freni inibitori ridotti a ipotesi.
“Ciao Prisci’! Che cazzo stai a fa’? Io mo’ devo anna’ da quel culo secco de la diriggente, che palle, me mannano sempre da tutte le parti, ‘ste teste de…”
”Anche meno, Aida” la fermò Priscilla.
L’usciera aveva deciso di essere sua amica, per insondabili alchimie umane, il che implicava l’indubbio vantaggio di non sentirla mai parlare dell’anatomia e dei costumi di Priscilla in termini imbarazzanti. Di contro, tale predilezione la rendeva depositaria di confidenze sulla povera vita di Aida, oggetto sessuale nelle mani di alcuni colleghi, con dovizia di particolari che facevano infuriare l’archivista. Circolavano voci sull’usciera, quasi tutte crudeli, tranne quella che attribuiva le attuali intemperanze a un’ischemia cerebrale.
Priscilla spinse il bottone dell’agognato seminterrato, ma l’ascensore di Satana si aprì al primo piano ad accogliere la figura macilenta di Marisa. Come ogni volta che la incontrava, Priscilla smise di respirare. Sapeva poco di quella donna chiusa al mondo da una lunga tendina di capelli lisci e grigi che le nascondevano metà del viso, se non che parlava incessantemente con un interlocutore invisibile, e saettava in giro l’unico occhio che concedeva al mondo, giusto per evitare gli ostacoli.
L’ascensore riprese la marcia, con la colonna sonora cacofonica delle parolacce di Aida e il controcanto salmodiante del mistero doloroso di Marisa. Priscilla avvertì l’ansia in ascesa verticale e, inequivocabile, il crack del salvavita interno. Sentì il dolore che avvelenava le sue notti farsi strada a spirale, come un cobra incantatore. Il crescendo, però, venne interrotto da un improvviso arresto del motore, si spense la luce e l’ascensore si bloccò a cavallo fra il pianterreno e il seminterrato. Seguì un silenzio balsamico per tutte e tre le recluse. Il mondo si era arrestato.
Priscilla si accorse di tremare, temeva ogni crepa nell’autocontrollo. Lasciò che il brivido fluisse senza resistere, ormai il danno era fatto, il confine fra il mondo delle voci accusatorie che la affaticavano e la realtà che lei accudiva con impegno feroce, era probabilmente infranto. Si lasciò scivolare sul pavimento, arresa, attendendo l’assalto. Inaspettatamente, il silenzio interiore restò solido e pietoso.
“Ah Prisci’, allora è vero che l’ascensore è posseduto! Tocca chiamà quarcuno, ce devono libbera’!” la voce di Aida era bassa, quasi gentile, con una nota dubitativa. “Me fanno male i piedi, mo’ me siedo pure io, però tocca premere il pulsante che se parla co’ quelli che te salvano, te, ah cosa, schiaccia, no?”
Marisa, sentendosi chiamata in causa, riattivò il suo rifugio antiatomico, la vacanza dal mondo a parte era finita. Riprese la conversazione segreta e concitata “Leda sono chiusa e non ti vedo lo sai che senza di te non posso vivere è buio tu hai paura lo so ma devi dirmi che è tutto a posto senza di te senza di te senza di te Leda…”
Nel vuoto del buio acquisivano senso le monotone e poco scandite invocazioni di Marisa. Ciò che nessuno aveva mai colto nel suo perenne borbottare diventava intellegibile nel bozzolo di metallo, corde d’acciaio e ruote dentate consacrato alla geometria, ora fermo. Priscilla e Aida, l’una nel panico, l’altra quasi in pace, erano state ammesse nel mondo di Marisa.
“Ahò, come te chiami? Mo’ chi è ‘sta Leda? Sta’ bbona fija, mo’ arivano e aprono l’ascensore, magari vie’ quer pompiere bono che me lo…”
“Aida, dicono che Leda sia stata il suo amore. E’ morta, da allora Marisa parla solo con lei.” La voce di Priscilla era un sussurro, come in chiesa, per non interrompere la preghiera laica alla divinità minore.
“Viè qua, fijetta mia, me credevo che eri matta e basta, invece sei matta e c’hai raggione!” Aida si alzò da terra e a tentoni abbracciò Marisa, provocandole una crisi di grida e agitazione. Aida non mollava, malgrado Marisa si divincolasse come una tarantolata, in un crescendo manicomiale. Priscilla, dal fondo dell’ascensore, capì che neanche le più imperiose proteste avrebbero avuto modo di insinuarsi nel sabba delle due sciroccate. La risata nacque stentatella, poco più di una tosse stizzosa, poi prese coraggio, esplorò differenti vocali e intonazioni fino ad aprirsi alla sfacciataggine. Priscilla era ormai al convulso ridere, mai avrebbe immaginato una cura così inusuale per i suoi problemi. Marisa, spiazzata, smise di urlare e si lasciò proteggere dalle braccia popolane dell’usciera, continuando a rassicurare sottovoce la sua Leda. L’indistruttibile Aida un po’ cedeva alla ridarella, un po’ sparava allusioni genitali per non perdere l’abitudine, e un po’ tentava di farsi spiegare da Priscilla cosa avesse da sghignazzare. Lentamente, come per tutte le cose buone, tornò il silenzio.
“Vabbè, io so’ io, Marisa da’ li numeri, ma tu chi te credi de esse per ride de noi?” Non c’era cattiveria nella domanda di Aida, era appena un rimbrotto carico di infinita pazienza. Priscilla, senza soluzione di continuità, si trovò a piangere, ancora a bocca aperta, smodata, rivendicativa.
“Domanda sbagliata, Aida. Chiedimi chi sono adesso, quante Priscille ho in corpo e quale vince. Posso dirti solo che sono tanto stanca, vorrei morire per riposare un po’. Passo le giornate a tenere a bada con la frusta il casino che ho in testa, a cercare di distinguere la voce mentale che mi grida cattiverie da una voce reale. Io vivo contemporaneamente in due universi, non so quale escludere. Sai cosa significa svegliarsi con le mascelle di pietra? Stringo i denti pure quando sogno. Però non posso mollare, perchè sono nata saggia. Sono la stampella di troppa gente.”
“Nnamo bbene…” sussurrò Aida.
Il buio si fece denso, morbido come velluto. Taceva Priscilla, piccoli singhiozzi a parte. Taceva Aida, dopo un sospiro sconsolato. La voce impacciata di Marisa colse tutte di sorpresa, aveva un timbro mai ascoltato, non monocorde ma caldo, quasi accorato:
“Tu non resterai là” disse “Tu sarai quella che torna”.
Per un attimo l’ascensore ministeriale apparve come uno stargate attraverso il quale si snodavano vie molteplici, linee di fuga e vialetti di casa, un ponte dove sostare per tirare il fiato, o fermarsi a raffrontare panorami.
“Come ar solito, Marisa va, Priscilla torna… E io? Facile, no? Io so’ l’usciera!” Aida sapeva di essere l’unica a non avere scelta.
Il motore dell’ascensore riprese a ronzare. Subito dopo si accese la luce sui segreti rivelati, su un abbraccio irripetibile, sul mascara colato di Priscilla. Aida fu la prima a tornare ad assumere il personaggio consueto. Senza alcun rapporto di causa-effetto prese a raccontare una storiaccia di servizietti fatti agli uscieri maschi. Coerente nella sua incongruità, si rivolse di punto in bianco a Priscilla:
“Nun te preoccupa’, io i cazzi tua nun li racconto”.
Marisa rivolse loro uno sguardo vero, uno solo, prima di tornare a lasciar cadere i capelli sul confine del mondo di Leda.
Si aprirono le porte su un muro invalicabile di impiegati vocianti.

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