Un alone bianco offusca il panorama. Colpa della carta patinata. Inclina il depliant e l’ombra fa risplendere i colori. Una piscina troppo celeste, una striscia di mare troppo azzurro, una macchia di alberi troppo verdi. Il sogno svanisce non appena ci sbarchi, a Ischia. La piscina trabocca di carne. Il mare è a righe, per i motoscafi che rombano sull’acqua. Tra gli alberi spuntano gli spigoli di scatole-case, antenne paraboliche, lamiere di fortuna.
Il giro dell’isola è un arcobaleno di scocche abbaglianti che si rincorrono, s’incolonnano, s’incrociano, tra i guizzi d’argento degli scooter in corsa.
«Volevo partire, andare via: invece sono tornato a casa» dice a se stesso il viaggiatore.
Cerca un cestino dove gettare il depliant, ma non lo trova. Lo mette in tasca. Si perde. Segue il corso di un torrente che non c’è. Gli sembra di camminare sul greto di un fiume disseccato. Gli argini sempre più alti, sassi minuscoli, come fossili di insetti, incastrati nel terreno morbido. Le radici, lunghe e aggrovigliate, che fuoriescono dalle pareti franose fanno pensare ai capelli di ninfe sepolte. Il cielo si copre di arabeschi, di ragnatele, di trame fitte e evanescenti. Poi lo strapiombo, una piccola rada che il viaggiatore già conosce, pur non essendoci mai stato.
Ogni viaggio è un viaggio di ritorno.