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Costumi

Giadina Zeta, una boutique

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Di colpo, in una nordica città italiana che mi astengo dal nominare, all’angolo di una strada con un’altra che non dico, al posto di una filiale della nota catena di ferramenta Zeta, è sorta la delirante boutique Giadina Zeta. Immagino Giadina Giadetta Zeta abbia chiesto a babbuccio suo Zeta Zeta: “dai, aprimi un negoziettino tutto per me, tanto lì di chiodi e bulloni non ne vendi più… fammi felice…”. E, in una strada dove negozianti e bottegai tirano faticosamente a campare, quando non sono costretti a chiudere, oggi si apre, solenne e cafona, Giadina Zeta.
Manichini alti due metri, sistemati in pose da lordosi scoliosi & cifosi, sfoggiano mini abiti fosforescenti. I colori ricordano il vomito del gatto, ma col neon dentro. Catene ovunque. Nel centro della negozia scintillante e cristallina troneggia un pouf rosa, gigante, tipo fontana di raso capitonnè. Lancio un’occhiata ai prezzi: duemilaottocentoottanta, tremilaecento euri, uno scherzo per un target di ricche gigantesse anoressiche daltoniche e gobbe. Chissà quante sono.
Si attende il solenne vernissage con sfilata, che invaderà il marciapiede di fronte, e oltre. (Papà Zeta deve vantar amici in Municipio). Camerieri in livrea, direttrici in tailleur – come usavano antecrisi – girotondano per loro compiti definitivi. I cellulari ronzano, i tablet tablettano. Una musica trendissima ingolfa il viale, il marciapiede di fronte, i palazzi che vi s’affacciano. Il catering scarica bloccando il traffico.
Non sono tra gli invitati. Sono fra i comuni mortali che lumano cristando. Mi allontano prima dell’arrivo dei Vippissimi. 50 metri più avanti, alla bancarella quasi italiana acquisto felice una maglia larga di cotone. 20 euro. La indosso sui leggins bordò. Sembro un paggetto. Addio Giadina.

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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