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Racconti

Due firme

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Lunedì 9 marzo, giorno del suo 74° compleanno, è morto Marcello Del Bosco per me fratello prima ancora che amico. Le nostre vite si sono intrecciate più di una volta. La più importante è raccontata qui, come è scritta in un mio diario inedito che lui conosceva bene. La lettera con le nostre due firme che vedete qui sopra reca la data 19 marzo 1982.

 

Dico a Spagnoli (1) e Del Bosco che mi sembra necessario dimettermi; il giornale deve essere difeso e un atto del genere rende più agevole una ripresa. Man mano che ragiono ad alta voce le dimissioni mi sembrano non solo necessarie ma inevitabili. Spagnoli dice di non precipitare, di non prendere decisioni che non siano ben meditate, di consigliarsi. Poi è ormai tardi, dormirci su porta consiglio. E’ tardi davvero e lui se ne va.

Io e Marcello restiamo soli, ci guardiamo in faccia e riprendiamo l’argomento. Non c’è proprio via d’uscita, anche lui è d’accordo. Che cosa può intervenire per migliorare la nostra condizione? Nulla. Marcello ricorre a una metafora sportiva. Va bene, dice, che possono succedere anche i miracoli; ma noi perdiamo con cinque gol di scarto a tre minuti dalla fine; e questa non è neppure una partita che si può pareggiare, o si vince o si perde. E’ proprio impossibile illudersi che la partita non sia persa e aspettare il fischio dell’arbitro. Una cosa, almeno, possiamo evitarla: che le dimissioni ci vengano richieste.

Sono d’accordo con lui. In più, aggiungo, c’è la questione essenziale: difendere il giornale: le mie dimissioni serviranno senz’altro ad alleggerire la pressione sul giornale. Date come atto autonomo, senza che venga deciso e richiesto in sede politica, assumono anche il significato di una riaffermazione della autonoma responsabilità del giornale. Sì, le dimissioni mi sembrano assolutamente inevitabili; ed è, a farmi convinto di ciò, soprattutto la certezza che la Maresca (2) mi ha mentito. Se le cose dette dalla Maresca fossero attendibili, se il fascicolo giudiziario esistesse veramente, se veramente il magistrato avesse fornito alla Maresca informazioni e documenti, allora, sia pure in condizioni molto difficili, potrei pensare anche di resistere. Ma con una redattrice che, in una circostanza così impegnativa, ti ha mentito, ogni possibilità concreta di difesa è impedita.

Spesso l’ho detto un po’ scherzando, ma, in fondo, io sono sempre stato convinto che un giornale è come una nave e che il direttore ha lo stesso tipo di responsabilità di un comandante. Quando a una nave succede un grosso guaio, si incaglia o entra in collisione, non c’è da star lì a fare tanti distinguo, a cercare le responsabilità del macchinista, dell’addetto al radar o del nostromo. La responsabilità, oggettiva prima ancora che soggettiva, è del comandante. Le dimissioni, doverose in certi casi, assumono anche un significato collettivo; è l’intero equipaggio che riconosce le sue responsabilità in quella del comandante e attraverso quelle dimissioni si emenda e si rinnova.

Rispondo più o meno con questi argomenti a Marcello il quale insiste per aggiungere alle mie anche le sue dimissioni. Lo invito a superare ogni motivazione soggettiva e personale, a guardare oggettivamente al significato generale delle mie dimissioni e a tenere in considerazione i problemi del giornale. Abbiamo già avuto, negli ultimi mesi, un forte depauperamento di quadri dirigenti, e non è il caso di peggiorare ulteriormente la situazione, andando al di là dello stretto necessario. Aggiungo anche che, andando via io si tratterà di nominare un nuovo direttore e la cosa non dovrebbe risultare eccessivamente difficile. Ma lui, Marcello, ha un ruolo e delle funzioni per le quali è assai più complicato trovare alternative soddisfacenti.

Torno e ritorno su questi concetti ma Marcello oppone un ragionamento semplicissimo: non accetterà mai di restare al suo posto se io me ne vado; per ragioni di lealtà personale e per ragioni di corresponsabilità. Mi metto comunque alla macchina e comincio a scrivere la lettera. Quando vede così, Marcello mi dice che se non voglio scrivere insieme la lettera, lui ne va a scrivere un’altra per suo conto. In fondo, aggiunge, io e lui abbiamo una diversa investitura formale; il Comitato Centrale ha nominato solo me, lui è stato nominato successivamente dalla direzione del giornale in accordo con la segreteria. E’ chiaro che non posso accettare questo argomento e Marcello lo ha usato provocatoriamente per forzarmi la mano.

Faccio un ultimo tentativo per dissuaderlo ma è evidente che la sua opinione non cambia. Scrivo allora, al plurale, anziché al singolare, la lettera. E’ molto breve. Dice in sostanza che, nella situazione creatasi, per difendere il giornale, consideriamo doverose le dimissioni. Le trasmettiamo alla Segreteria in forma riservata per non creare ulteriori complicazioni. Sarà la Segreteria, con gli organi dirigenti a decidere il momento e il modo migliore per dar seguito e pubblicità a questa nostra decisione. Firmiamo la lettera che reca la data di venerdì 19 marzo; la giornata che termina è, per noi, giovedì; ma, ormai, sono le due di notte, è cominciato il venerdì. Usciamo dall’ufficio e attraversiamo la redazione deserta. C’è solo il vecchio fattorino del turno notturno al quale consegniamo la busta raccomandandogli di farla recapitare con il primo giro dei fattorini del mattino. Usciamo dalla portineria operai perché l’ingresso principale è chiuso da un pezzo.

(1) Ugo Spagnoli, all’epoca Vicepresidente del gruppo parlamentare del Pci alla Camera dei deputati. Avvocato, sarà giudice costituzionale

(2) Marina Maresca, giornalista de l’Unità, fornì al giornale il documento sul caso Cirillo all’origine della vicenda che condusse alle dimissioni

 

La lettera completa

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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