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Racconti

Il Collettivo e la Libertà

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Trovo tra le carte una fotografia che mi ritrae poco più che ventenne con Vanni Pierini e i due fratelli gemelli Angelo e Guido Bolaffi, allora universitari romani, sbarcati in Sicilia per un tostissimo ‘seminario’ che formò in modo robusto la mia ‘identità marxista’. Si stava tutti a Villa Elena, un ex monastero mezzo diroccato tra Palermo e la spiaggia di Mondello, che Lelio Basso aveva messo a disposizione dei partecipanti.

Vi passai un mese intero nell’estate del 1967 immerso in letture promosse dal ‘centro studi marxisti’, collettivo diretto da Carlo Cicerchia – dirigente della Federbraccianti CGIL- di cui facevano parte oltre a noi universitari comunisti, alcuni sindacalisti della CGIL, come Giacino Militello e Silvano Andriani.

I giovani e agguerriti universitari avevano già fatto parte della sezione Mazzini del PCI, centro di accese discussioni teoriche e di altrettante contese politiche che animavano la vita interna, contestazioni ‘a sinistra’ del PCI che anticiparono e sarebbero in parte sfociate nel movimento studentesco del ‘sessantotto’…

Vi si approfondivano le ‘questioni del leninismo’, si valutavano i frutti delle rivoluzioni sovietica e cinese, del ‘Capitale’ di Marx e delle letture ad esso collegate, con i testi di Kautsky, Rosa Luxenburg, Hilferding, Tugan-Baranovsky ed altro ancora.

Fu una scuola di teoria marxista più che formativa.

Lì approfondii le teorie del plusvalore, della riproduzione allargata, della crisi e del rapporto tra valori e prezzi nella accumulazione capitalistica, nonché le versioni riguardanti il capitale finanziario, e le forme di ‘governo mondiale’ della economia.

Studiavamo in seminario dieci ore al giorno, senza tregua, come missionari in attesa di poter accedere al nostro compiti di ‘officianti della rivoluzione’…

C’era uno spirito di fanatismo, che metteva alla prova tutte le resistenze psicologiche, vissute da ciascuno in modo diverso, ma egualmente soggetti alla critica di ogni residuale ‘mentalità borghese’…

Naturalmente, l’estate si faceva sentire, con i suoi umori e le sue tentazioni. Ne rifuggivamo tuffandoci nei libri sacri, non senza assaporare di rado un tuffo nel mare di Mondello dove si spendeva una gioventù più spensierata a caccia di piacere, che per assunto ideologico disprezzavamo tenendola lontana…

A un certo punto, il ‘gruppo’ pensò di concedersi una piccola vacanza di mare: questa avrebbe dovuto proseguire, secondo regola ‘monastica’, in modo rigorosamente chiuso ad estranei, con spese in comune, divertimenti condivisi, senza altre ingerenze.

Io allora avevo una ragazza (che poi sarebbe diventata mia moglie). Mi fu subito chiaro che, se avessi voluto passare qualche giorno disteso e felice assieme a lei, non sarebbe stato certo possibile in quella atmosfera conventuale cui mi ero affiliato fino a quel momento a tutto tondo. Il prezzo da pagare era troppo alto. Mi sembrò una debolezza, ma decisi comunque di separarmi dai compagni, che visibilmente non accettarono di buon grado l’infrazione alla regola non scritta del ‘collettivo’.

Mi inventai delle scuse e partii lo stesso.

Avevo studiato il ‘marxismo’ e il ‘leninismo’ ma volevo concedermi una pausa senza dovermi giustificare e non vedevo l’ora di passare con la mia ragazza una ‘vacanza borghese’.

Morale: ce ne andammo a Positano, alla Buca di Bacco, e prendemmo dei meravigliosi bagni di mare e di sole al largo di quel posto incantato, affittando dei variopinti barchini a motore fuoribordo, come andava all’epoca.

Gli amici e compagni non mi dissero nulla, ma si capiva bene che avrebbero volentieri censurato quella mia ‘devianza’.

Dopo l’estate, passata come Dio comanda, continuai a frequentare il ‘centro studi marxisti’. ma cominciai poco per volta a diradare.

Senza confessarlo apertamente, sentivo che, per quanto il gruppo mi avesse dato molto in fatto di teoria marxista, la vita non poteva finire impacchettata nella ideologia. Cominciai a pensare che ‘libertà’ di fare e pensare quello che mi pareva, senza l’occhio indagatore del ‘collettivo’, fosse un bene cui non valeva la pena di rinunciare.

Per nulla al mondo. Ed iniziò a partire da quel momento la mia strada a ritroso, lentamente perseguita ma sicuramente guadagnata, verso il ‘revisionismo’ della dottrina e la scoperta sempre più apprezzata del bene irrinunciabile della ‘libertà’.

 

DUCCIO TROMBADORI

Duccio Trombadori. Nato a Roma nel 1945, figlio e nipote d’arte, dal padre Antonello e dal nonno Francesco ha ereditato la passione per la politica e la pittura. Laureato in Filosofia, è stato giornalista, critico d’arte, saggista, docente di estetica alla università di Architettura di Roma. Ha iniziato a scrivere d’ arte su ‘L’Unità’ alla fine degli anni Settanta, ha continuato in seguito su ‘Rinascita’, ‘Panorama’, ‘Il Foglio’, ‘Il Giornale’, e sul Tg3. Esperto d’ arte italiana del ‘900, ha diretto una rivista d’arte (‘Quadri&Sculture’, 1993-1998) ed ha curato monografie di Mario Mafai, Francesco Trombadori, Antonio Donghi, Riccardo Francalancia, Giulio Turcato, Renato Guttuso, Mario Schifano, Mario Ceroli. Tra il 1993 e il 2013 ha collaborato a diverse edizioni della Biennale di Venezia, di cui è stato consigliere di amministrazione. E’ stato più volte consigliere di amministrazione della Quadriennale di Roma. E’ autore di un libro- intervista con Michel Foucault (1982) e di una biografia ragionata di Gino De Dominicis (2012) . Un suo libro di versi (’Illustre Amore’, 2007) è giunto finalista al Premio Viareggio. E’ pittore di piccoli paesaggi di gusto ‘novecentesco’ che ha esposto a Parigi e Roma tra il 1990 e il 2014.

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