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IO E SAMAN

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Saman Abbas (Immagine da Google)

Lì lo chiamano, e qui lo chiamavano “onore”.
«La vita di una ragazza non vale nulla, quella di una figlia ancora meno, se rifiuta il ruolo di merce che serve a uno scambio vantaggioso, non per lei che non ne ha diritto», ha scritto Aspesi su Repubblica, nel suo “Perché siamo tutte Saman”.
E io provo rabbia infinita per il padre scappato in Pakistan a prendersi le congratulazioni del clan, tenerezza per il fratello 16enne alleato della sorella, e per il ragazzo che lei amava; e provo una inorridita, terrorizzata pietà per la madre piegata dagli usi tribali a rinnegare anche l’amore per la figlia.
E provo l’assoluta certezza che dobbiamo tutte e tutti lottare per i diritti di queste ragazze, che non ne muoiano più, che non vengano più rapite per esser vendute a sconosciuti. Che possano, anche, semplicemente, proseguire gli studi. Noi italiane, che per i nostri diritti abbiamo lottato, che siamo riuscite a ottenere l’abolizione del delitto d’onore solo nel 1981, che ancora assistiamo qui a femminicidi praticati da italiani su italiane, a stupri e altre violenze – proprio per questo dobbiamo lottare per i diritti di tutte le donne. Perché i diritti sono universali.
Non ho timore di lasciar spazio a razzismi con le mie affermazioni, né a pregiudizi antiislamici. La grande guerra contro le donne, il potere del patriarcato, e l’onnipresenza della sua ancella misoginia, strumento di pregiudizi e disprezzo, non sono questione di etnie, ma pratiche tribali che risalgono a prima della nascita delle religioni più diffuse – nelle quali però si infilarono benissimo. Quasi tutte le civiltà del pianeta ne sono infette, in gradi diversi. In alcune abbiamo vissuto un processo di affermazione dei diritti, faticoso e recente, eppure permangono, anche nei paesi più liberi, credenze e usi imbevuti di misoginia, che spesso passano per naturali e giusti.
Quindi andiamo avanti a lavorare – per i diritti, la libertà e la dignità di tutte le donne, di ogni etnia o religione. Di tutti gli esseri umani.

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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