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L’ AMICO ARMENO di Andreï Makine

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“Mi ha insegnato a essere chi non ero”.
Con queste parole si apre il romanzo “L’amico armeno”, eppure la frase potrebbe essere collocata in fondo all’ultima pagina, ubbidendo così al disegno circolare della narrazione, come spesso accade nelle opere di Makine, scrittore siberiano, naturalizzato francese.
Qual è il segreto di Vardan? Che cosa lo rende un amico speciale, diverso da tutti gli altri? Forse i suoi occhi grandi e immobili che sanno vedere più lontano di quanto possa fare un ragazzo sulla soglia dell’adolescenza? Oppure la nobile compassione, insita nel carattere della gente a cui egli sembra appartenere?
Siamo in un villaggio siberiano, dominato da un vecchio convento trasformato in prigione. Vi stazionano in attesa di processo i ribelli armeni destinati probabilmente ai lavori forzati in un gulag. I parenti abitano le casupole a ridosso dei bastioni nel quartiere sinistramente chiamato “La punta del diavolo”.
È qui che il giovane protagonista, ospite in un orfanotrofio, conosce il “regno di Armenia” e incontra per la prima volta la bellezza: questa si esprime nei modi gentili esibiti dalla madre di Vardan e nell’eleganza ricercata degli scialli in mussola appesi alle finestre, o negli arabeschi argento e nero che adornano il bricco del caffè e il manico di un coltello; in tutti quegli oggetti con cui si cerca di ricostruire la patria in esilio abita una grazia esotica, mai leziosa, lontana dall’essenzialità punitiva che, invece, il severo funzionalismo dell’ideologia sovietica impone anche nel quotidiano.
Il candore di certi dettagli nelle foto di famiglia – i giocattoli in braccio ai bambini ritratti ai piedi degli adulti – rende ancora più orribile la scoperta del genocidio armeno, una vecchia cicatrice che sanguina ancora, nonostante l’illusione di una completa pacificazione tra etnie diverse, come vorrebbe il verbo del regime. E sarà proprio il bruciore di questa cicatrice a far precipitare gli eventi.
In un contesto di violenze e soprusi, al narratore si offrono straordinari modelli paterni: il mutilato di guerra Ronin, professore di matematica che, nel cortile dell’orfanotrofio, disegna cerchi al cui interno i ragazzi iscrivono poligoni, in un esercizio che diventa sfida a superare i confini, e il vecchio armeno Sarven, seduto all’ombra dell’orologio solare che egli stesso ha costruito rendendolo, così, signore del tempo.
Quella con Vardan è la storia di un’amicizia, la parabola di un incontro con l’altro, ma l’amore è presente, è un orizzonte prossimo: la sorpresa di due amanti avvinti in un amplesso è la promessa di un’altra vita possibile.
Respiro epico e lirismo: prosa misurata, senza nessuna concessione alla retorica.

Edizione La nave di Teseo

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SALVATORE RONGA

Nacque a bordo di un’isola nel golfo di Napoli, Ischia. Sbarcò raramente, così da poter attribuire al rollio ogni tormento esistenziale. Sperimentò varie forme di gastrite. Perse i capelli, ma non perse tempo a raccoglierli. Amò più di quanto i suoi amici sospettassero e odiò molto meno di quanto i suoi nemici avessero creduto. Venne alla luce il 13 luglio 1969 e da allora non fa che scrivere e riscrivere il suo epitaffio.

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