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La bellezza di Kate e le parole che non si possono dire

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State seguendo “Omicidio a Easttown”? E’ su Sky Atlantic. E’ perfetto. Perfetta è Kate Winslet, goffa, spettinata, senza trucco, la cui bellezza risalta e splende in ogni inquadratura, nella bocca amara dal disegno greco, nello sguardo che parla di un dolore indicibile. Che tremenda lezione per le attrici plasticate, lisce, opalescenti: e quindi brutte. La bellezza di Kate è in ciò che ha deciso di raccontare tacendo. La serie perfetta, raccontata, recitata, urlata e sussurrata come succede alle serie tv quando diventano arte. Ogni inquadratura ha il senso di una vita, americana, di profonda provincia, lontana, lontanissima da noi e che pure ci entra dentro a freccia. Forse perché di dolori indicibili siamo esperte, e li sappiamo leggere, quando sono raccontati così forte, così sinceramente. Lascerò perdere il plot, ce lo gusteremo piano piano, lo centellineremo puntata per puntata. L’arte – sì, la chiamo arte, questa tv qui – io la chiamo arte – perché solo l’arte dona gioia anche quando è fatta di dolore, che è bella anche quando mostra squallore, che è vita anche quando indica la morte.
Perché in fondo voglio solo parlare della bellezza di una donna, dell’attrice Kate Winslet, che ha deciso di mostrarsi così. Così. Il viso è nudo e la bellezza vi esplode, libera da convenzioni, da obblighi. Dalle deformazioni servili della subalternità. Kate bella lo è nata, non voglio raccontarmi favole, bella, bellissima. Ma, qui, si è presa in mano il potere di mostrarla tutta senza maschere, la sua bellezza. La impone come fosse una dea triste e corrusca, tenera e temibile. La vera bellezza, che il mondo abitualmente nasconde, perché è insopportabile da guardare, tanto quanto lo è il dolore più profondo, quello di cui Mare Sheehan, l’investigatrice protagonista della serie, non può parlare con nessuno.
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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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