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Attualità

Persa nel Covid

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Immagine dell'Autrice

Mi credevo una poeta, una scrittora, una fotografa, anche una giornalista. Davo ai miei atti di relativa creatività una importanza spropositata. Ero anche abbastanza brava, non facciamo la falsa modesta. Ero piena e sarei tutt’ora traboccante di un talento che allora ponevo al centro della mia personalità, cui prestavo la mia ragione di vivere, anzi, il senso della mia esistenza in questo mondo. Un genio, insomma.
Sta cippa. Da quando Covid ha bloccato le vite sono un fico infruttuoso.
Da quando non posso più vedere figli, nipoti, amiche e amici non creo. Non leggo, non parliamo di scrivere una riga. Scatto qualche foto, inconscia, nel mentre che compio l’obbligatorio giro dell’isolato, ma poi chi se la sente di lavorarci per comunicare al mondo il sentimento dell’essere? Di usare le mie ultime sinapsi per dar loro una forma? Nemmeno parlarne.
Se non posso amare non posso fare. Il famoso cervello è sforacchiato, gli occhi che vedevano milioni di sfumature sono opachi, il magico senso del ritmo che mi rese danzante è un tamburellare stanco.
Senza gli affetti sono una idiota.
Senza le cene fra noi, senza la confidenza, l’intimità, gli scherzi io non sono. Mi sono persa l’ingresso nella vita e le difficili decisioni dei due ragazzi più grandi. Non ho avuto alcun ruolo nella turbinosa e sognante avventura degli adolescenti. Non sono stata vicina a quell’essere meraviglioso che pare lontano, ma è nel centro di tutto. Non ho più rimboccato le coperte, col bacio della buonanotte, ai due più piccoli. Non ho condiviso gioie né dolori di nessuna, nessuno dei miei amici, non ho dato una mano a nessuno, non sono servita a niente. Dal gennaio del 2020.
Senza il loro bisogno di me, senza il mio bisogno di loro non avevo forza, immaginazione, canto. Potenza.
Sola, chiusa per sopravvivere, sola e terrorizzata anche da vaccinata perché a 80 anni si rischia. Prigioniera della mia sopravvivenza materiale. Che palle.

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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