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Costumi Racconti

Profumo di casa

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Casa milanese - Foto di Giovanna Nuvoletti

Pubblichiamo i due migliori racconti del corso di scrittura di Valeria Viganò dell’ottobre 2023. Questo è il primo

 

In principio era l’Erminia.
Bassina, coi capelli grigi ondulati, un bitorzolo sulla guancia, i denti sgangherati, i calzini corti, le pantofole di feltro e un grembiule marrone sempre sudicio, era l’immagine della miseria di Milano nel dopoguerra.
Oltre all’ aspetto fisico trasandato la nostra portinaia era una ficcanaso senza ritegno che trovavo insopportabile. Stava sempre all’uscio e quando passavi ti informava su tutte le faccende del vicinato. Soprattutto ti interrogava sui fatti tuoi e della tua famiglia per poterli elaborare a suo modo e riferirli a chiunque.
L’Erminia aveva un marito, l’Angiolino, che era fatto a forma di vaso con il corpo che si allargava smisuratamente sul giro vita per poi restringersi verso la testa e i piedi. Anche lui vestiva di marrone con la cintura dei pantaloni che arrivava appena a chiudersi, e teneva sempre un toscano corto e spento in bocca, ma non era molesto come la moglie. Avevano due figlie invisibili e dormivano tutti in un locale nel sottotetto. Il palazzo veniva pulito un po’ come si pulisce il ponte di una nave e non era mai veramente tirato a lucido. La portineria consisteva in un locale dove un terzo dello spazio era destinato a guardiola a vista sull’ingresso e i restanti due terzi, separati da una boiserie vetrata, fungevano da cucina.
L’odore che ne usciva e si spandeva in tutto l’androne era quello del minestrone che ribolliva dal mattino alla sera, e solo raramente si trattava dell’odore di un qualche lesso o di frattaglie perché all’epoca quelle prelibatezze erano un lusso. L’Italia era ancora sotto le macerie e Milano sembrava una cartolina in bianco e nero.

La “Sagadisa” e la bambina.
Il caseggiato dove abitavo, un bell’edificio dei primi anni del ‘900, stava sull’angolo di due strade e si affacciava sul viale della circonvallazione come la prora di una nave. Al vasto cortile interno, dove mio padre teneva la macchina, si accedeva da tre portoni, due dei quali carrabili. Ai tempi dell’Erminia in uno degli ingressi i custodi erano una coppia di profughi istriani. La donna tentava di omologarsi inventando improbabili vocaboli milanesi e io l’avevo soprannominata la “sagadisa” per l’intercalare che usava e che stava per “come le dicevo”. Sciatta e scialba, ma benevola, era una quarantenne che dimostrava sessant’anni, cosa normale all’epoca, con un marito smilzo sempre in giacchetta da lavoro e basco blu. I due allevavano polli in cantina, nel pieno centro di Milano, quindi, ogni volta che andavamo a prendere la macchina era tutto un coccodè. Nell’altro portone abitava una bambina di due tre anni più grande di me. Portava delle trecce disordinate e si vedeva che era disturbata, forse dalla nascita o forse perché, come compresi in seguito intercettando dei discorsi a mezza voce dei miei genitori, il padre picchiava la madre in quel buco di portineria. Qualche volta andavo in cortile a giocare con altri bambini o da sola, ma mia madre mi aveva proibito di giocare con lei. Senza darmi ovviamente troppe spiegazioni. Una volta la bambina dall’aria stralunata mi propose di andare in cantina. Ho rimosso quello che successe laggiù, mi resta nella testa un fermo immagine notturno attraversato dalla luce fioca che filtrava dalle bocche di lupo e una sensazione di disagio. Ricordo solo che la sera, facendo il bagnetto, la mamma vide che avevo un piccolo taglio sul petto, si arrabbiò moltissimo e in cortile non andai più. Nel frattempo l’Italia si era tolta le macerie di dosso, il cielo sopra Milano si riempiva di gru, il ragazzo della via Gluck rimpiangeva i prati verdi e io incominciavo a farmi troppe domande. Per fortuna arrivo’ la Ilde.

La Ilde.
Ilde venne assunta con il marito Michele perché non avevano figli e dissero che non potevano averne, quella portineria infatti era totalmente disadatta per una famiglia. Ma dopo poco tempo la Ilde rimase incinta per la prima volta e poi per la seconda.
Era giovane, aveva pochi anni più di me, e aveva una bella faccia tonda e occhi azzurri stretti e ridenti. Era veneta e come tante giovani di allora era venuta a servizio in città. Era stata un paio d’ anni da una contessa che le aveva insegnato come si fanno le pulizie per bene e cucinare. Il palazzo era improvvisamente brillante con tutti gli ottoni lucidati, i pavimenti sfavillanti, l’ascensore pulito e persino il corrimano in legno sulle scale sembrava nuovo. Dalla portineria usciva odore di bucato e di sugo, un odore di buon mangiare. Il marito faceva il muratore, era pugliese di origine ma ce la metteva tutta per sembrare milanese, e parlava persino il dialetto. In quegli anni, i cosi detti “anni di piombo”, la città procedeva comunque in quella espansione a ritmo serrato che sfociò nell’era dell’ ottimismo rampante e spregiudicato della “Milano da bere”. Il l nostro palazzo, in questo contesto, si stava svuotando dei suoi abitanti e riempiendo di uffici. La Ilde, che era un tipo intraprendente, iniziò a pulire anche quelli e quindi era sempre al lavoro, infaticabile e sempre sorridente.
Io ero sedotta dagli odorini della portineria e visto che in casa mia la situazione era drammatica, con mio padre malato, mia madre sempre incazzata e mia nonna a regime, cominciai, con la scusa di assaggiare, a fermarmi in portineria per il pasto. Tornavo da scuola ed entravo lì direttamente. Un giorno c’era la polenta con lo spezzatino o con il gorgonzola, un altro giorno gli gnocchi fatti in casa oppure l’arrosto con le verdure o il pesce e per finire sempre frutta, dolce e caffè. Non ero la sola, la Rosy, un’impiegata malata che aveva bisogno di stare a dieta prese a mangiare lì e la Ilde cucinava del cibo a parte per lei, poi fu la volta di un avvocato che chiese se poteva fermarsi, e poi tutto il suo ufficio, e alla fine si mangiava allegramente in portineria anche in quattordici a turni di quattro o cinque persone alla volta. Quando avevo ospiti li portavo tutti a mangiare dalla Ilde, come fosse una trattoria.
Poco alla volta quella formichina meravigliosa metteva da parte i soldi per comprare una casa. Purtroppo il marito non voleva saperne ed erano urli e a volte scappava anche qualche schiaffone Convinta di fare la cosa giusta e sospinta dall’ottimismo del tempo la Ilde prese finalmente il coraggio e si impegnò per l’acquisto di un appartamento senza il consenso del consorte. Furono giorni di strepiti ma lei tenne duro e da anni si gode la sua casa con un bel balcone a sud.
Per me la Ilde era come una sorella maggiore e mi sono chiesta tante volte cosa sarebbe stata la mia vita in quella casa senza la luce e la gioia che aveva portato lei.
Negli anni 70 avevo perso mio padre e mia nonna e nella casa, a parte mia madre, me e una giovane coppia, c’erano oramai solo uffici e naturalmente i portinai con le loro storie indissolubilmente legate alla mia.

Ravi
Milano, città per tradizione operosa e accogliente, con il suo benessere diffuso attraeva immigrati dall’estero. Nel momento in cui la città smaltiva la sbornia degli anni 80 nel teatro di “Mani pulite” venne assunto, come nuovo custode, un cingalese di nome Ravi.
Con lui c’erano anche la moglie Padma e due figlie: Ayesha e Milani, cosi chiamata perché era nata a Milano. Erano tutti bellissimi e molto educati e i pochi abitanti della casa li accolsero con una disponibilità senza riserve come fossero famigliari. Quando cucinavano i cibi tradizionali si spandeva per tutto il palazzo il profumo di curry e mia madre, in particolare, era deliziata da quel cibo esotico, nuovo per lei. In cambio degli assaggi, Ravi poteva usare la sua macchina. Purtroppo questa situazione idilliaca ebbe vita breve e si trasformò in una tragedia che racconta tutta la difficoltà dei percorsi di integrazione. Ayesha cresceva e diventava ogni giorno più bella e inquieta finchè, dopo aver compiuto sedici anni, scappò di casa. Il padre come impazzito, dopo un mese scoprì che era fuggita con un giovane del loro paese. La riacciuffò e programmò una atroce vendetta. Organizzò una sfarzosa cerimonia per la quale fece fuori tutti i soldi che aveva e si indebitò fino all’osso, costrinse la figlia a sposarsi poi la ripudio’ e, divorato dalla vergogna, sparì senza lasciare traccia. Più tardi venimmo a sapere che teneva le figlie segregate in casa e non permetteva loro di uscire con i compagni di scuola né di andare al cinema o di avere una qualsiasi forma di intrattenimento sociale. Molti immigrati, come Ravi, arrivano da noi ma pretendono di mantenere inalterate le proprie tradizioni, senza capire che il loro tipo di educazione è spesso inadeguato alla nuova realtà e senza comprenderne i limiti. A farne le spese sono i giovani, sensibilissimi agli stimoli esterni e, nella maggior parte dei casi, desiderosi di integrarsi.
Rimaste sole Padma e Milani tornarono in Sri Lanka non prima di averci presentato Kumar, fratello di Ravi, che venne assunto come nuovo custode.

Kumar
Kumar è attualmente il nostro custode. E’ innamorato delle piante che coltiva in cortile durante l’inverno e che ricovera nell’androne e sulle scale in estate.
Quando entri a casa ti devi districare tra il foliage e il profumo di spezie. Ha una moglie, Chandra, e due figli, Dinesh e Danesh e un gatto bianco di nome Sodu, che vuole dire bianco. Kumar ha imparato dall’esperienza del fratello e ha permesso alla figlia di laurearsi in Scienza della comunicazione. La ragazza è sveglia e lavora ma , a suo dire, non riesce a trovare un impiego stabile perché non è italiana. Il maschio , dopo aver preso il diploma di elettrotecnico, ha passato un certo numero di anni nella “nullafacenzia” oscillando tra crisi spirituali e tensioni artistiche che sono culminate in un ricovero in psichiatria a causa di un’aggressione a morsi contro un passante. Il ragazzo ha difficoltà ad accettare la propria realtà che lo costringe a un lavoro che non ama e che sente senza prospettive. E’ sempre in cura e ora si occupa della manutenzione della linea metropolitana. Il lavoro lo tiene, nel vero senso della parola, su un binario, ma io ho sempre paura che prima o poi gli prenda un raptus e mandi un treno fuori pista. Nel tempo libero sogna di produrre musica o di coltivare una piantagione di tè. Piu’spesso però prende a pugni il mondo riversando le sue frustrazioni su un sacco da boxe in cantina.
Kumar da quando il figlio sul quale puntava anche per il proprio futuro, è stato male, si è perso d’animo e ha iniziato a bere e giocare riempiendosi di debiti. A volte alza la voce con i figli e la moglie che lo hanno isolato e lo fanno dormire da solo in cantina. La situazione è disastrosa, la liquidazione è già stata impegnata con un decreto del tribunale per pagare tutti i debiti di gioco. I vecchi condomini, me compresa, anche se preoccupati, sono stanchi di questa situazione. Le difficoltà colpiscono trasversalmente tutte le classi sociali e accentuano le differenze e le intolleranze. La pandemia ha cambiato molte cose e ora si può lavorare anche da casa così, nel palazzo, le abitazioni stanno riprendendo il posto usurpato dagli uffici. I nuovi condomini, giovani rampantelli per i quali la casa e chi ci abita non hanno storia, chiedono la riduzione dell’orario di portineria. Il costo della vita con l’ aggiunta del costo di un portiere fisso con famiglia è diventato insostenibile.

Mi viene dato l’incarico di selezionare il nuovo custode. Si presentano poche persone straniere e una signora italiana di mezza eta’. Iniziamo il colloquio e mi racconta che era impiegata in un’impresa della bergamasca che ha chiuso a causa del covid. MI accorgo che è più lei che fa domande a me che non io a lei, è un po’ invadente e molto indiscreta, vuole sapere perché non ho figli e quanto è grande il mio appartamento. Non mi sento comoda ma parliamo comunque della crisi, della gente che scappa da tutti i territori in guerra, dei cinque milioni di poveri in Italia, del mondo che va indietro, lei stessa sta retrocedendo nella scala sociale, e alla fine mi dice che sua nonna aveva lavorato, tanto tempo prima, proprio in una portineria di viale dei Mille.
La guardo. Bassina, coi capelli grigi ondulati, un cappotto marrone… una gran ficcanaso. Vengo attraversata da un ricordo improvviso, le chiedo il nome della nonna.
Erminia! risponde.

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