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Attualità

Riflessione non a mente fredda su Battisti

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Battisti. Ne parlo solo ora perché ho dovuto meditare. Ho 76 anni, e quelli di piombo li ho vissuti sulla pelle, nel sangue.
Un amico, il giudice Alessandrini, è stato assassinato, così come un compagno del mio partito, l’operaio Guido Rossa. Sono state assassinate molte persone inermi, di destra o di sinistra, prese sotto casa da ben coperti assassini.
Sotto casa del fascista Pedenovi, mentre con i miei colleghi fotografavo l’enorme chiazza di sangue, ho pianto. Era il sangue di un essere umano. I fotografi “compagni” mi guardavano straniti: è solo una donna, avranno pensato. Parlo di sentimenti miei, di mie esperienze ben concrete, di allora e di adesso. Non sono poliziotta, né giudice, né avvocata.
L’Unità ci aveva dato un estintore da tenere in casa, e una macchina blindata con autista armato, ex-partigiano, per mio marito. Quando lui tornava a casa io scendevo in strada, col cuore in gola, a aspettarlo. Hanno poi detto di averlo avuto sì nel mirino, ma che le strade intorno a casa nostra erano troppo strette, non avrebbero garantito una fuga sicura.
Ecco, Battisti: sento pena per lui – ma ciò non si sovrappone al mio giudizio. Ora, è giustamente in galera. Spero sia una galera civile, decente, come in Italia non è quasi mai. Ho pena per quello che LUI è, per ciò che ha dentro. Per le colpe che ogni giorni a se stesso egli deve descrivere come meriti – l’inferno di essere lui stesso. Pena e rabbia per i 40 anni in cui si è creduto più furbo di noi, al di sopra della legge, e si è fatto beffe di noi – anni in cui lo ho immaginato a farci marameo, circondato da un codazzo di ammiratori idioti, tra cui una scrittrice di gialli francese tanto alla moda. Mi fa pena perché due uomini politici che mi fanno schifo hanno messo su un teatrino esponendo l’orso prigioniero. Battisti mi fa pena, ma non pietà.
E provo ammirazione per la poliziotta che l’ha catturato, Cristina Villa, capo della sezione terrorismo di Milano. Che, nonostante le regole vigenti, non gli ha portato via la foto del figlio. E che ha affermato: “catturarlo era il mio lavoro, e l’ho fatto. Ma io non brinderò mai alla tristezza altrui”.

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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