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Al Lavatoio

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Sono 237 passi uscendo dal cancello di casa. L’unica terra rimasta è quella intorno a due alberi sul marciapiede che percorro. Eppure, so che fra poco sarò immerso in ciò che spero. Devo scriverlo bene il momento, perché l’ho promesso a me stesso, così giro a sinistra, faccio ancora 16 passi, sta per finire il muretto che me ne impedisce la visuale a destra. Eccolo, il mio punto d’arrivo.
Sento ancora le voci quasi chiassose. Sono voci di donne. Quanto parlano, stanno compiendo una gran fatica ma parlano. Sono giovani le loro braccia, intorno alle quali hanno arrotolato, tirandole in su, le maniche di camicie bianche, bianchissime che si bagnano ma non importa. Hanno tutte un corpetto, nero che arriva ai seni, li sostiene e li rende procaci. Non si vede altro di loro, sono dietro grandi lastre di pietra lisciate dall’uso, sbilenche, che affondano nell’acqua che scorre mentre le braccia portano le cose da lavare dentro e fuori e si fermano solo il tempo per sbatterle con forza sulla pietra.
La strada che ho fatto è la stessa che facevano proprio le donne che sto immaginando ora, con la roba da lavare nei cesti, uscendo dalle case del cortile, e già cominciavano a sorridersi e a parlarsi in libertà prima ancora di lasciare il grandissimo portale. Non c’erano marciapiedi, ma grandi ciottoli e terra e quasi si riconoscevano i passi lasciati. Non è difficile pensare che si andasse alla fatica in allegria, era pur sempre meglio che rimanersene chiuse in casa a badare a uno o più neonati o alle bestie nella stalla. Magari là fuori avrebbero incontrato qualche ragazzotto che già tornava, con la zappa in spalla, dai primi lavori in campagna. Avrebbero scambiato qualche sorriso. Quando non si poteva parlare quanto valore avevano i sorrisi, gli sguardi! Desiderio, dichiarazione, intesa, compiacimento di quella breve occasione, appuntamento, chissà?
Poi tutte a lavare panni al lavatoio e a commentare insieme quanto fosse bello quello e se quell’altro aveva capito quanto fosse pronta quell’altra – e via così almanaccando.
Mentre faccio i 237 passi per il ritorno ripenso alla fortuna di aver visto scorrere l’acqua che si ferma quando devono pulire il piccolo corso. Sono ancora questi i ciottoli del cortile? E la poca terra? Dovrebbero avere più rispetto coloro che entrano qui, e non sanno di quante gioie hanno parlato, e d’amori e sogni quelle che hanno calpestato, prima di loro, il cortile, quando d’estate, le giovani donne al lavatoio, ci andavano con i piedi nudi, coperti dalle larghe e lunghe gonne col corpetto…

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ANTONIO QUAGLIARELLA

Pugliese del ’44, una decina d’anni in ogni provincia e, partendo da Lecce, ha emigrato nel 2003 in Lombardia. Proprio l’anno del grande caldo, con questa regione in testa per il maggior numero di anziani sopravvissuti. Sempre nel campo finanziario, ha smesso (fortunatamente) di dare consigli il 30 aprile del 2013. Servizio militare assolto con gioia e onore nei Parà, la Toscana gli entra nel cuore in quel periodo, era 1968. Non resiste per tanto tempo a niente e a nessuno, quando ha potuto farlo si muove di conseguenza, riconoscendosi il merito di saper vivere con piacere in contesti molto complessi e diversi e questo sin da bambino. Ogni volta prova la stessa sensazione di avere di fronte una vita nuova di zecca da scoprire e questo gli moltiplica le forze. Viene cooptato nel Rotary International e si merita la Paul Harris Fellow, appena prima che istituissero il numero chiuso per i terroni. Questo continuo frazionamento di vita lo porta alla convinzione che l’ultima persona vicina non potrebbe mai avere sottomano una storia completa (quasi) della sua vita. Così comincia a scrivere. Ne fa le spese, di questo fiume di inchiostro, La Rivista Intelligente e la sua “mamma” Giovanna. Essere sé stessi sempre, qualche volta anche juventino, ha un prezzo da pagare. Solo una donna sempre al suo fianco, dai tempi della migrazione e l’accoglienza, continua a fargli sconti e a dargli credito e lui l’ha legata a doppio filo alla sua vita, ormai finalmente stanziale.

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