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Il pianoforte per le scale

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Erano arrivati in quattro la mattina, muniti di assi di legno da usare come piano inclinato, stracci e una coperta di quelle ispide per attutire i colpi alla bella struttura di legno pregiato. L’inesorabile stava accadendo sotto gli occhi di Clelia, sbarrati in una smorfia di terrore e incredulità. Il pianoforte stava andando via, era già per le scale trasportato dai facchini che a ogni tornante lo depositavano a terra per riprendere fiato. In una delle soste il movimento era stato così brusco e grossolano che i tasti avevano reagito alla scossa emettendo un suono cupo, un lamento trattenuto. Pure, a ogni passaggio di ballatoio, a ogni imprecazione dei facchini per la mancanza di spazio e la necessità di concepire manovre complicate, l’animo le si apriva all’illogica speranza che tutto si sospendesse di colpo, che qualcuno più forte e potente di lei si parasse davanti agli energumeni impedendo loro di completare l’impresa. Ma chi avrebbe potuto tanto?
Solo pochi giorni prima, lo stesso tragitto era stato percorso dai necrofori che si erano portati via il Maestro, il suo adorato e malandato Professore di musica, senza che lei potesse neanche salutarlo. “Allontanate le bambine!” aveva detto sbrigativa la padrona di casa e suo padre aveva eseguito l’ordine, convinto anche lui che fosse meglio risparmiare alle figlie lo strazio della morte.
Nessuno invece l’aveva protetta dall’ ennesima separazione. Non Cecilia, la sorella maggiore che per il pianoforte nutriva scarso sentimento né intuiva il suo dolore; non il padre, uomo buono e mite ma troppo preso dal compito gravoso di provvedere alle due figlie dopo l’improvvisa scomparsa della moglie; non Elvira, la proprietaria della casa presso la quale la famigliola si era trasferita e che si era personalmente impegnata per liberarsi dello strumento. Quando Clelia aveva appreso la notizia che il piano sarebbe stato venduto per pagare l’affitto non versato dal maestro da molti mesi, la disperazione che le attanagliava il petto era esplosa in una richiesta ardita e: “Possiamo tenerlo noi, papà, la nostra stanza è spaziosa, ci entra benissimo!” aveva urlato.
Don Michele, così era chiamato l’esperto restauratore che ricomponeva e faceva tornare intatti tutti i reperti antichi del Museo Nazionale, mai avrebbe potuto operare quel prodigio che la figlia gli chiedeva con tanta infantile urgenza. “C’entrerebbe, eccome se c’entrerebbe, ma…” era stato il laconico e definitivo commento.
Il suo pianoforte aveva varcato dunque la soglia del palazzo tra le maledizioni dei facchini esausti, il sollievo di Elvira finalmente risarcita del suo credito e la curiosità indifferente delle condomine richiamate sui ballatoi dall’ insolito fracasso.
Accovacciata fuori la porta della stanza nella quale il maestro impartiva le sue lezioni, quante volte Clelia aveva ascoltato i suoni che le entravano direttamente nel cuore, dilatandole il pugnetto stretto di dolore che si era piazzato al centro del suo petto da quando aveva visto per l’ultima volta il corpo amato della mamma cosparso di orribili sanguisughe. Così un tempo si praticava il salasso, l’estremo tentativo di salvezza per ammalati gravi. E gravissima doveva essere la mamma se poco dopo che l’aveva salutata da lontano, dalla stanza da letto della malata era venuto fuori il padre, bianco e rigido come i marmi ai quali pure era sempre stato capace di restituire un’altra vita.
“Fatela entrare, tenetela con voi maestro! Sta qua fuori, comme ‘nu canill’” aveva interceduto per lei la padrona di casa, desiderosa di sbarazzarsi di quel fagottino di bambina ostinatamente in ascolto che le impediva di ciabattare liberamente per il corridoio, con tutto ciò che aveva da sbrigare, cucinare, fare il bucato e stirare per quegli inquilini tanto sventurati. Così, grazie a una buona parola di Elvira, era stata introdotta nella stanza della musica, prima solo ad ascoltare senza dare fastidio, poi, data prova evidente della sua vocazione naturale, per ricevere una vera formazione dal Maestro, entusiasta di quella piccina così talentuosa e rapida nell’apprendere, al contrario dei suoi allievi a pagamento. E poiché l’anziano professore arrotondava gli scarsi guadagni provenienti dalle lezioni suonando a feste, matrimoni e cerimonie, un giorno propose a Don Michele di portare con sé l’orfanella – così proprio la chiamò, palesando anche l’intima convinzione che la creatura paffuta coi riccioli chiari e gli occhi verdi avrebbe sollecitato la tenerezza e quindi le mance del pubblico, sempre molto sensibile al patetico- per farsi accompagnare in qualche sonatina. “È brava ‘a piccerella, brava assaje”, e furono confezionate dalla sarta due vestine semplici semplici, ma abbellite da roselline di Lenci, le stesse che fiorivano sul cerchietto tra i capelli. La vita mondana della coppia di concertisti poté finalmente incominciare.

“Ottavo piano, ma dovete salire a piedi, non entra nell’ascensore!” La voce di Clelia, accattivante e striata di un’euforia incontenibile, dava le ultime indicazioni ai facchini per la consegna: il pianoforte nuovo, uno Steinway dal suono purissimo, scelto dopo lunghe sedute di prova presso la storica ditta Napolitano, finalmente era arrivato.
Occorsero settimane perché si abituasse al nuovo ospite ogni volta senza alzare il coperchio, togliere il panno protettivo e far scorrere le dita sui tasti, come a provarne la realtà. All’inizio aveva finanche evitato di sedersi per tentare una suonata, magari una delle più semplici. Era tanto che non si esercitava. Certo negli anni le era capitato, in casa di un’amica che possedeva un piano, di eseguire qualcosa, ma si era sempre trattato di accompagnare l’immancabile cantore di classici partenopei, quindi mai di una prova personale come l’esecuzione di un Notturno di Chopin, della quale sentirsi interamente responsabile.
Dopo l’addio al maestro e alla loro breve stagione concertistica, la sua vita si era composta assecondando gli eventi, spesso non per una limpida determinazione ma come rispondendo a un disegno inconsapevole. Lo studio, durante la guerra, poi il matrimonio, l’insegnamento, le figlie, tutto era stato ottenuto da lei con fatica, come in una corsa affannosa; mai, però, la mancanza del piano era stata percepita come una ferita da curare, ma piuttosto come l’avvertimento nostalgico di una possibilità sempre aperta. Se quel giorno il pianoforte fosse rimasto in casa… e da questa ipotesi le si era presentato, via via che la sua esistenza assumeva configurazioni sempre più definite e vincolanti, un prisma cangiante di vite possibili, tutte accomunate dal segno distintivo dell’appagamento, dell’esistere pieno e indubitabile che la sua coscienza spietata e critica sapeva non essere il suo. Di volta in volta era stata la acclamata concertista in giro per il mondo, o la maestra di piano di allievi entusiasti, da portare a successi planetari o la musicista solitaria che una sera da una stanza d’albergo a Ravello le aveva inondato da lontano l’anima con la gioia dell’ascolto imprevisto di una esecuzione perfetta.
Non le fu semplice ammettere che non bastava possedere il pianoforte, estratto dal suo contesto originario, la casa di Elvira, la stanza del maestro, lei bambina, per produrre il miracolo della ripresa. Così accade quando, rivedendo dopo anni qualcuno che eravamo certi di amare e al quale eravamo stati costretti a rinunciare, non avvertiamo più l’urgenza della comunione, e ce ne stupiamo.
L’arrivo del piano nella nuova casa, acquistata in età non più giovane, quando le figlie erano ormai cresciute, rappresentò l’avvento repentino nella sua vita, orientata fino ad allora alla massima soddisfazione dei bisogni altrui, della possibilità di assecondare ciò che lei custodiva come la sua aspirazione più autentica. Le ci volle molto, però, per capire quanto il desiderio, contrapposto al suo vivere quotidiano, somigliasse piuttosto a una sorgente essiccata che nessun rabdomante avrebbe potuto resuscitare. I tentativi furono molteplici. Innanzitutto perseguì la via regia, quella di prendere lezioni. Ma per un’attività così marginale e complicata- insegnare a una signora avanti negli anni per riattivarne le dita non più plastiche come quelle di una bimba- fu disponibile solo un’anziana pianista, frettolosa nell’approccio e assai poco attraente. La stessa, incontrando spesso le nipotine in visita alla nonna, suggerì senza troppo riflettere sulla scortesia delle sue parole, che loro sì, avrebbero potuto imparare da lei. E fu il tempo, per quel piano che avrebbe dovuto inverare una vita, di essere suonato da manine insofferenti a ogni disciplina, con toccate rapide e dolenti, sguardi ostili e confronti rissosi, fino al definitivo ammutinamento delle piccole allieve in un pomeriggio di sole primaverile, che le chiamava a soddisfazioni assai più concrete di quelle date da scale e solfeggi.
All’abbandono di ogni prospettiva di esercizio canonico per sé, di ogni aspettativa nei confronti delle nipoti subentrò una rassegnazione gioiosa, il sollievo della consapevole rinuncia. Mai in passato avrebbe immaginato di sentirsi costretta, proprio dallo strumento vagheggiato per anni, a una prova di realtà senza attenuanti. Si estinguono così le passioni, anche le più coinvolgenti, se non si è dato loro il modo per esprimersi e divenire una forma che duri non soltanto nello scenario intermittente della memoria. Il piano da allora in poi le avrebbe fatto ancora compagnia con la sola presenza, non più come un pungolo a riscattare la sua esistenza mancata, ma come un vecchio amico al quale si chiede comprensione indulgente senza neanche parlare. Magari facendogli di tanto in tanto una carezza col solo scopo di riascoltarne la voce.

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VALERIA FRESCURA

Vive e lavora a Napoli dove insegna Filosofia e Scienze umane al Liceo "E. P. Fonseca". E' giornalista pubblicista.

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