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Racconti

Io, Giorgio, rinato cane.

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Apro gli occhi, li sento cisposi come se avessi dormito chissà quanto. Mi duole la schiena e mi pizzica la zampa destra, totalmente pelata.
Ada, così la chiamano le altre infermiere, mi viene vicino pulendomi gli occhi con un batuffolo di cotone, accarezzandomi e baciandomi il muso.
Manda un odore che mi piace, l’odore di aglio abbrustolito che si spargeva in cucina quando, nella precedente vita, la mia ex moglie preparava spaghetti aglio olio e peperoncino, l’unica cosa che avevo rimpianto di lei dopo la separazione.
Ada mi prende delicatamente in braccio, mi porta davanti a una ciotola di croccantini: sembrano meglio di quelli del canile, mollicci e dall’odore rancido.
“il piccolo bassottino”, mi chiama. Bassottino? Di tante razze canine possenti, sono rinato bassotto!
Passiamo in un corridoio immacolato, una dottoressa con un chiwawa in braccio, si ferma, commenta con Ada la mia ferita, mentre intorno a noi si sentono abbai festosi e dolorosi guaiti.
In una grande sala vengo imbracato come un bambino nel girello e immerso in una vasca dall’acqua tiepida. Wuao !!
Mi piace essere cane! Non finisco di pensarlo che parte il motore, quello strano tappeto si muove ed io comincio seppur con fatica ad andare su e giù.

can-vanch

Poi sento una voce, una voce che conosco. Non posso girarmi ma la riconosco: è la voce di quella rompiballe di Daniela Lizzardi
Ma che ci fa qui? Non le è bastato farmi crepare per colpa di quella furiosa lite sul bassotto malato?
Quel giorno ero isterico, Marco e Antonio, i miei soci nella gestione del Bau Bau Village, non erano venuti al canile; erano andati in Comune a reclamare i due mesi di contributi che ancora non erano arrivati e a noi servivano urgentemente. Faceva caldo, dovevamo sostituire qualche tetto di lamiera dei box, gli ultimi sacchi di cibo sarebbero durati un paio di settimane e c’erano due cagnette da far partorire.
E quella cretina della Lizzardi aveva fatto il diavolo a quattro perché non davo importanza al suo bassotto, che, sempre vispo e allegro. quel giorno trascinava penosamente una zampa posteriore.
Lei, giornalista e animalista, ogni volta che arrivava con l’immancabile macchina fotografica, si fermava davanti alla gabbia del bastardello, lungo come una salciccia e dal pelo marroncino, un incrocio tra due bassotti di diversa razza. Tra i tanti cani aveva scelto lui. Era l’unico momento che la “matta” come la chiamavamo, smetteva di strillare, di minacciare di farci togliere la convenzione comunale e di inveire contro me e i miei soci.
Si accoccolava davanti a “Titino”, tirando fuori dalla tasca un biscotto, divertendosi alle capriole del cane che a pancia in su reclamava grattatine. Quel giorno vedendolo trascinarsi per leccarle la mano, si era messa ad urlare che andava a portarlo dal veterinario: doveva essere subito operato o sarebbe rimasto paralizzato.
Si era precipitata in ufficio, il cane in braccio.
“…Titino va operato capisci? Ernia del disco. Se non va subito in chirurgia si paralizza..”
Le avevo spiegato che il veterinario del comune sarebbe venuto il lunedì successivo e avrei fatto visitare il cane. Daniela aveva reagito urlando di più. Ero un cretino, senza pietà, un cretino a cui interessavano solo i soldi del Comune.
“..Il cane va portato subito alla clinica del dottor Manuele Timberzoli. Se lo opera lui il cane si salva altrimenti si paralizza..!”
L’avevo mandata al diavolo, urlando a mia volta che al massimo lo potevo sopprimere, così non avrebbe sofferto.
Lei aveva continuato a gridare- avrebbe provveduto lei a pagare l’intervento e la riabilitazione di Titino.
L’avevo lasciata urlare, mentre cercava di aprire la gabbia.
Me l’ero ritrovata in ufficio. Continuava a insultarmi e minacciava di denunciarmi in una di quelle trasmissioni televisive per animalisti esaltati.
Oddio, pensai, sarebbe la fine; in Comune non aspettano altro che una denuncia di mala gestione del canile per toglierci la convenzione.
Cercavo di spiegare le mie ragioni, non potevo portare tutti alla clinica privata, e poi un bastardello! Avevamo un paio di pastori tedeschi, un labrador purissimo seriamente ammalati. Quelli sì che andavano curati!
Lei continuava, la testa mi scoppiava: faceva un gran caldo, sentivo il fiato che mi mancava e qualcosa di pesante mi premeva in mezzo al petto. Scivolai sul pavimento.
Vidi lo sgomento, il terrore negli occhi di Daniela, che mi carezzava viso e capelli mentre qualcuno mi caricava su un’ambulanza scuotendo il capo; l’ultima cosa che vidi fu il candore del camice dell’infermiera, lo stesso candore del camice di Ada, al risveglio nella mia nuova vita, di CANE.
Mi avevano tirato fuori dalla vasca, una ragazza mi asciugava mentre Daniela mi accarezzava dolcemente il muso.
Il dottor Timberzoli era simpaticissimo, appena mi vide mi diede un biscottino al pesce. Parlò a lungo con Daniela, stavo benissimo; l’intervento era riuscito perché ero stato operato subito, entro le ventiquattr’ore. Non dovevo far scale né strapazzarmi, per un mese.
Trenta giorni di paradiso: a casa di Daniela trovai un cuscino rosso, una ciotola con acqua e una con scritto “pappa”, riempita di ottimi croccantini e patè. Avevo un collarino nero con una medaglietta a forma di osso con inciso il mio nome, Titino e il cellulare di Daniela. Con lei facevamo brevi passeggiate e nonostante quella lunga bitorzoluta cicatrice sul dorso, ricevevo i complimenti dei passanti.
Una sera, mentre Daniela mi passava su tutto il corpo una salvietta profumata di borotalco, accoccolato tra le sue braccia pensai a tutti gli amici che avevo lasciato al canile di Giorgio e ai tanti altri amici sparsi un po’ dappertutto nei ricoveri per cani. Loro non avrebbero mai conosciuto il calore di tanto affetto, avrebbero continuato a mangiare schifezze, si sarebbero ammalati e nessuno avrebbe avuto pietà.
Mi vergognai di essere stato uomo. Pensai a quanti innocui esseri avevo guardato con indifferenza, senza ascoltarne i guaiti di dolore, le richieste di amore, e arrivando a togliere i cuccioli alle mamme perché troppo oneroso il mantenimento.

cane-dan-van

La dolce voce di Daniela che mi chiamava, mi riportò alla nuova realtà. Mi stiracchiai dirigendomi verso la camera della mia padroncina, che prendendomi delicatamente sotto la pancia mi adagiò sul caldo piumone ai piedi del letto.

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