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La pandemia che ci obbligò a stare vicini

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Illustrazione di Martina Polverino

Per Ettore fu fatale una piccola distrazione, lui che era solitamente così attento a tutte le prescrizioni. Il virus lo sorprese mentre si allontanava da casa – una passeggiata in solitudine per intuire i primi segnali della primavera – e non gli restò che lamentarsi della sua palese incoscienza.
Eppure erano mesi che televisioni e giornali ribadivano con chiarezza cosa fare per scongiurare il contagio, a cominciare da ciò che a tutti ormai sembrava banale quanto inderogabile: mai allontanarsi l’uno dall’altro, perché quel virus colpiva così, nutrendosi del distanziamento sociale, diffondendosi subdolo nei luoghi più isolati, traendo vigoria dal desiderio di solitudine dei cittadini.
Un insospettabile afflato ammantò l’intero paese: trionfò l’armonia anche tra le famiglie più litigiose, nacquero imprevedibili amicizie tra clan rivali e fazioni fino a qualche mese prima in guerra tra di loro. “Più saremo vicini, più ostacoleremo la diffusione del virus”, aveva sentenziato convinto il virologo Gilberto Marioni, generando – mentre la pandemia imperversava – quella che i giornali chiamarono corsa all’assembramento.
Fu chiaro a tutti, in quel preciso istante, che il dialogo sarebbe stato lo strumento più efficace per contrastare la diffusione del contagio; solo rinunciando all’acquisito privilegio dello smart working, tornando a popolare salotti e camere da pranzo, piazze e oratori, concentrandosi ai banconi dei bar e preferendo le code ai supermercati alla comodità del delivery, la diffusione del virus avrebbe avuto l’auspicato freno.
Nessuno osava sottovalutare il sacrificio immane che i governi, non senza deprecabile demagogia, chiedevano alla popolazione: stare uniti. Ne dibattevano filosofi e opinionisti, la stampa cavalcava l’onda con orgiastico trasporto: davvero l’uomo – che negli ultimi decenni aveva imparato a nutrirsi della sua solitudine, per effetto della tecnologia e dell’incomunicabilità delle idee, ciascuno con la sua, ciascuno mal disposto a negoziarla – per salvare la pelle avrebbe accettato di ridiventare un animale sociale?
Dovettero studiare una forma di controllo che ai più parve una repressione intollerabile, sanzionando chi continuava a vivere per conto proprio, salutava a malapena i vicini rifuggiva con tenace ostilità i banchetti conviviali, la più affidabile garanzia anti-contagio.
“Se l’unico modo per non ammalarsi è stare insieme alla mia famiglia, preferisco prendere il virus”, tuonò in televisione la diciottenne Antonella, applaudita – a cinque metri di distanza – da un baffuto quarantenne e, altri otto metriu più in là, dal salumiere del paese. Il quale, però, non esitò poi a darle addosso con cattiveria, com’era ormai nei costumi del tempo, rimproverando all’intervistata il look, il linguaggio, il nome e la propensione ad apparire: quelli erano tempi in cui mostrare accondiscendenza verso chicchessia era una forma intollerabile di debolezza.
Di qui la complessa sfida che attendeva tutti: smettere i panni del bastian contrario per tornare – un tempo lo si era stati, ricordavano i più anziani, tra i quali qualche canuto pescatore del borgo di Marina Sola – più vicini possibile, per impedire che lo spazio tra i pensieri e quello tra le persone alimentasse il propagarsi del contagio. Sulla cui natura, peraltro, non tutti concordavano: così, chiuso ciascuno nel suo piccolo laboratorio privato, gli scienziati cercavano nuove risposte, e finivano a loro volta col contagiarsi, ché il virus colpiva proprio chi s’arroccava nel suo angusto studiolo, anziché optare per un lavoro di squadra.
“Se l’è beccato perché non ha resistito alla tentazione di ritagliarsi uno spazio per sé, dopo ore al bar e in piazza, e dopo il pranzo dai suoceri”, dicevano dell’ultima vittima, alcuni pensionati mentre sorsegiavano il caffé e senza nascondere una certa comprensione nei suoi confronti. “E, del resto, non siamo stati progettati per vivere insieme agli altri”, ribatté convinto un omaccione barbuto, che preferì restarsene alla pericolosa distanza di tre metri, noncurante del rischio. “Non siamo stati progettati, ma che fandonie dici?”, gli fece eco uno dei più anziani, principiando a ragionare di quei tempi in cui si viveva insieme per davvero, si pranzava attorno a lunghe tavole imbandite e – udite udite – si lavorava anche negli stessi spazi. Accadeva perfino che – glielo avevano raccontato i nonni – a ragionare guardandosi negli occhi e nutrendosi ciascuno delle idee dell’altro, veniva tutto più facile.
“Sono leggende metropolitane, che oggi ci propinano sol perché vogliono che torniamo a riunirci, così ci controllano meglio”, tagliò corto Emilio, che qui aveva fama d’essere uno tra i più saggi, e non a caso era solito vedere al massimo due o tre persone all’anno, prima della pandemia. Protestarono, in quei giorni, le lobby del delivery, cui non andava a genio vedere quella laica processione di consumatori affollare librerie e negozi di giocattoli, quasi si tornasse alla preistoria del commercio, quasi che preservare la propria salute controbilanciasse la comodità di ricevere tutto a casa. Accadde allora – benché fosse chiaro a tutti che lo si faceva per mera opportunità, si direbbe per semplice spirito di sopravvivenza – che confrontarsi e dibattere faccia a faccia, e conciliare le proprie idee con la costrizione di chi è obbligato ad ascoltare l’altro, per evitare di restare da soli e dunque vulnerabili al virus, cominciò ad apparire persino piacevole. “Torneremo ad allontanarci, perché è nella nostra natura, ma ora è il caso di resistere. Vi chiedo un piccolo sacrificio: restate vicini”, ribadì con autoritaria fermezza il premier Nobile, con l’obiettivo di rassicurare la popolazione ancora disorientata. Fu quando si decise che le lezioni scolastiche fossero collettive, riunendo gli alunni in un unico spazio, che qualcuno iniziò a perdere la brocca, ipotizzando un disegno “dei poteri oscuri per rafforzare il controllo sulla popolazione”. Ma Raffaello no, Raffaello si sgranò gli occhi e – circondato per la prima volta da decine di bambini – sorrise d’un sorriso contagioso, prima di esplodere nell’affermazione che cambiò il corso degli eventi, debellando per sempre quel virus e restituendo all’uomo la socialità perduta. “Ma non è semplicemente più bello così?”, disse. Annuirono tutti, ritrovando il piacere dello stare insieme, per strada e nelle case, e qualcuno disse che la pandemia li avrebbe resi migliori. Quella volta sì, quella volta era proprio vero.

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