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LA VISITA

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Ti ho immaginato nella mia nuova casa. Le cose che toccherai, le cose che dirai. Qualcosa si sarà spezzato e saremo distanti come due vecchie amiche che non hanno più nulla da spartire. Ma amiche non siamo e non lo saremo. Nonostante quel che volevi tu, non lo siamo mai state. Ti aspetterò in vetta alle scale con le braccia conserte, i grossi calzini ai piedi. Riconoscerai il maglione giallo che indosso, quello con il collo alto e avvolgente, a me non piace rinnovare. Ti abbaglierà, la tua vista non regge certi contrasti, e non avrai bisogno di indovinare i dettagli. Nella casa ti muoverai come un ospite, ti conosco. Non serve immaginarti diversa, immaginare che sorrideremo e saremo felici mentre la visiterai. Ti offrirò un thè perché sarà un pomeriggio d’inverno, marzo magari, e farà ancora freddo. Saremo stanche dell’inverno, io soprattutto, ma anche tu che ti stanchi di tutto. E del tempo parleremo per toglierci dall’imbarazzo. Ma nell’imbarazzo resteremo.
Senza che glielo chieda, mia madre si toglie le scarpe. Ci sediamo al tavolino basso nel salone. Incrocio le gambe, mentre lei fatica ad accomodarsi sui cuscini. Verso il thè nelle tazze. L’enorme quadro alla parete raffigura una donna nuda sdraiata su un fianco e di spalle. Potrei essere io, e questo pensiero la turba.
-Non ce l’hai un po’ di miele? – chiede.
-Ho dello zucchero, – rispondo porgendole il sacchetto. Mi fa segno di no con la mano.
– La prossima volta ti porto quello di Fernando. Fa bene anche ai bambini.
– Per le allergie, – aggiunge dopo un po’.
Non rispondo, m’irrigidisco. Conosco bene i suoi modi subdoli di esercitare il controllo. Devo stare attenta, non abbassare la guardia.
-Belle queste tende. Sono nuove?
Mia madre si è alzata, percorre il vasto salone verso la finestra, i passi brevi sul parquet nuovo. L’abbiamo voluto di color marrone scuro. Il legno è dell’albero di Wengé e proviene dal cuore dell’Africa, dal Congo. Ma questo lei non sembra averlo notato.
-Dove l’hai prese? – mi chiede sfiorando le tende.
-È un regalo, – rispondo secca e non è vero, è stato un acquisto sbagliato, ma ammetterlo sarebbe troppo.
-Ah. Sono belle, – risponde già ferita. Mia madre si gira verso la libreria a parete, fissa davanti a sé le centinaia di volumi appiccicati l’uno all’altro come fossero sardine multicolori.
Li ho salvati dal caos della nostra vecchia casa, pedissequamente disposti in ordine alfabetico. Mia madre ora li guarda ma non cerca con la curiosità di chi legge. Lei, lo vedo dagli angoli della bocca, dalle spalle che si sono chiuse, si è fatta triste ed è colpa mia.
Mamma, aspetta. Scusa. Vorrei abbracciarti forte come facevo quando mi portavi il sabato mattina a fare colazione alla pasticceria del centro. Ricordi? Certo, quello era un tempo più consono allo svago. Ti era concesso far qualcosa con me di sabato e ancora riuscivi a rilassarti fuori di casa. Una mamma lavoratrice, giovane e moderna. Che portava i mocassini, il rossetto fucsia. Eri il mio mondo allora. Cos’è successo in tutti questi anni?
La raggiungo alla finestra, quasi la sfioro. Guardiamo fuori desiderando entrambe essere altrove. Forse ci mancano le voci dei bambini, quelle aiutano sempre a far uscire le parole.
Parte un allarme invece, insistente, irritante come tutti gli allarmi.
-Suonano anche in centro – commenta astiosa.
Niente. Una visita inutile come le occasioni perse.
-Ti faccio vedere la cucina, – dico, ma faremmo meglio a finirla qui. La dovrei salutare, incappottare, mandar via.
-Manca ancora la lavastoviglie. Ce la portano domani, forse venerdì.
La cucina non è grande, ma la sala da pranzo sembra fatta per avere ospiti, ospiti che non si toglieranno le scarpe.
– Ma la roba da mangiare dove la metti?
Le indico il ripostiglio verde. Lo abbiamo scovato da Emmaus.
Mia madre abbassa lo sguardo. Poi lo rialza per trovare le padelle che penzolano dal soffitto.
-L’ha fatto Steve. Ti piace? – le chiedo.
-Lui è bravo per queste cose, – dice. Lui, non è come mio padre.
-Sì. Ha trovato un pezzo di metallo quadrato, ci ha messo quelle catene e ne ha ricavato un appendi pentole. Ualà!
Suonano al campanello. Il citofono dice che c’è un pacco a mio nome. -Devo scendere.
-Vuoi che ti aiuti? – dice lei.
-No. Finisci il thè che si raffredda.
Quando rientro, mia madre non è seduta al tavolo basso del salone. I cuscini non sono comodi per la sua schiena, avrei dovuto pensarci. Mi affaccio in cucina ma non è nemmeno lì.
Ti ricordi quella volta che piangevo e fingevi di non vedere? Non è passato molto tempo. Le lacrime si dovrebbero nascondere e io le esponevo addirittura ai miei figli. Tu non lo avresti mai fatto. Perché mi negasti un abbraccio? Avevi forse paura di crollare, straripare come fa il fiume nei giorni di piena?
Torno alla finestra del salone. La apro. Sta calando la sera, fuori il passeggio è cominciato e c’è il profumo inebriante del caffè. Abitare vicino ad una torrefazione regala temporanei oblii. Per un momento infatti, mi dimentico di mia madre. Mahmud, un signore nigeriano che conosco, passa in bicicletta. Sta cantando Bella Ciao. Lo chiamo. Gli sorrido facendogli un segno di saluto, lui ricambia voltandosi indietro ma senza fermarsi.
-Caterina! La voce incerta di mia madre mi richiama dentro. Mi porteresti la carta igienica?
Raggiungo il bagno e le allungo un pacchetto di fazzoletti.
-La carta igienica l’ho finita – dico. Nella vecchia casa, questo non succederebbe. Un’infanzia di stenti ha costretto mia madre a preoccuparsi costantemente di vivere nell’abbondanza. Per questo, a me mancherà sempre qualcosa, e va bene così.
Il thè è freddo oramai, colpa dei soffitti alti e dei termosifoni ancora spenti. Sarà anche del Quattrocento questa casa ma il riscaldamento non te lo regalano. Penserai questo, o forse lo dirai anche, funziona così, filtri non ne hai mai avuti.
Il pacco, comunque, sarà per te. Cioè, conterrà altre copie del mio libro di cui una sarà tua, un regalo per il primo di aprile, il tuo compleanno. Non lo festeggeremo, come al solito. Che ironia nascere nel giorno degli scherzi per te che sei così poco incline alla leggerezza.
-Ecco, mamma, in questo libro ci sei anche tu, – annuncerò, allungandotene una copia.
Lo leggerai e capirai non so cosa. Sei sempre stata brava a scrivere, dirai, fermandoti su una pagina a caso. Sarà inutile spiegarti che ci sono le licenze poetiche, che ho lasciato lavorare l’immaginazione, com’è giusto che sia. Ti soffermerai su ciò che riconosci, attenta a non perdere un dettaglio, come se ti dovessi interrogare, sbadiglierai sulle lunghe descrizioni di mondi lontani. In fondo, la tua reazione non sarà diversa da quella che avevi quando leggevi i miei temi alle medie. E ti chiederai perché ancora perdo tempo a fare cose belle ma inutili
Ora devi rientrare, il babbo vuole la cena per le 8 in punto. Ti rassicura avere la vecchia casa a cui tornare, il fatto di doverne uscire tutti i giorni non rende meno inevitabile il suo richiamo. E le abitudini spazzano sempre via ciò che è inutile.
Saluto in silenzio mia madre dalla cima delle scale. Si muove lenta, tenendo una mano ben salda sulla barra di appoggio. È difficile scendere quando manca il senso della profondità.
-Dovresti mettere delle luci al LED – le sento dire, ma ho già richiuso la porta.
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