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MENGELE SU IL FOGLIO

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Su Twitter e Facebook imperversano disparate opinioni sull’articolessa spropositata che il prestigioso quotidiano, fondato dal geniale Giuliano Ferrara e ora diretto dal bravissimo Claudio Cerasa, ha dedicato, qualche giorno fa, a una nuova biografia del medico che sperimentò le sue ricerche scientifiche a Auschwitz. L’autore della recensione è Giulio Meotti, una delle poche firme che NON mi fermo mai a leggere su Il Foglio, che ciononostante compro ogni giorno, perché contiene anche le migliori penne d’Italia. Ovvio, io sono contro ogni tipo di censura – ho letto con passione Nietszche, pazzo e misogino, Céline, delinquente e fascista, mentre il mio poeta italiano preferito è Sandro Penna, che fu pedofilo militante. Quindi, vista la polemica dilagante, mi sono incuriosita e ho deciso di fare una eccezione, e leggermi l’articolo nonostante l’autore. Mi sono accinta a sorbirmi il paginone: e alla fine non mi sono affatto scandalizzata, non ho certo deciso di non comprare mai più quel giornale, ma mi sono convinta che il pezzo di Meotti sia vuoto, inutile e noioso. E soprattutto, non dimostri affatto che Mengele sia stato un grande scienziato. Certo, si sa che a 33 anni, quando entrò in Auschwitz, era già un giovane medico e ricercatore precoce e brillante. Ma dopo? La sua ricerca genetica sull’ereditarietà del labbro leporino e sulle coppie gemelli, compiuta affettando bambini e ragazzi, cosa ha scoperto di nuovo e determinante? Non si sa, perché, quando i sovietici si avvicinarono a Berlino, il professor Verschuer, protettore e mentore di Mengele, “diede l’ordine di distruggere tutti file segreti. Non rimase nulla della ricerca svolta da Mengele ad Auschwitz”. Mi resta la domanda: perché dedicare tante righe di piombo a un uomo molto malvagio, di certo intelligente, ma della cui grandezza come scienziato non abbiamo alcuna prova? Fu esibizione di anticonformismo? Insinuazione di dubbi indicibili? Distrazione? Chissà.

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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