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Poesia

Lettera a Dio, nel corso della notte

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Immagine di Akira Kusaka

Poche parole, nessuna invenzione: sono le quattro di notte, non riesco a dormire.
Fuori dal sonno, dai sogni abituali, le parole son niente se non hanno da significare qualcosa.
È troppo grande e sfuggente questo universo in cui ci troviamo: non può aiutare la scienza, non ci rassicura il futuro. Nei pensieri che suggerisce la notte, il silenzio, si nasconde qualcosa di minuscolo e immenso, un fantasma del mondo, l’infinito del cielo.
Minaccia e speranza nella mia sofferenza, il tempo che batte e che sfugge, manca sempre qualcosa. Sfugge a ogni regola e norma, lontano dalla meccanica fredda di ogni sintassi e invenzione. Non può esserci né segno né voce per quello che invoco, per ciò per cui prego ogni tanto, per la risposta che chiedo? Cosa ci aspetta, cosa mi aspetta alla fine?
Non posso, non riesco pensare all’eterno, non sono capace di speculare sul tempo in astratto: l’intelligenza di un uomo conserva ancora qualcosa di un oscuro animale. Nuota il pesce d’abisso nel nostro pensare, la rana e l’anfibio dell’acquitrino e del fosso.
Penso al tempo che passa qui accanto, nelle ore di oggi e domani, ma anche alla morte, a quanto resta del tempo che potrò vivere ancora, al nulla di cui non conosco presagio. Non posso sapere in che cosa sperare? Vorrei rimediare a qualche errore che ho fatto. Sono piombo e metallo gli errori di notte sul cuore. Ho riflettuto, ci penso da tanto. Poche cose importanti.
Per me pochi nomi stanno adesso alle cose. Ma la mia angoscia non ammette una tregua, non rispetta decenze d’orario.
Conosceremo forse un respiro diverso? Ci viene in aiuto il rimpianto da morti? Avremo, avrò io, una coscienza pensante? Ci sarà il desiderio della terra e del corpo a bruciarmi la pelle nel sogno? Io non sono troppo legato alla terra e più di me stesso è mia moglie che amo. Vivremo, vivrò separato da lei in una notte d’eterno, in esilio, lontano?
Se verremo privati dei corpi come faremo davvero ad amarci?
Riposi nel sonno, ti sfioro le mani.
Come faremo, come faremo ad amarci?

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MASSIMO SALVADORI

Nasco a Modena, ma rivendico ascendenze liguri, toscane, venete. Trapiantato a Napoli, rimango uomo di pianura: il grido dei gabbiani è una sorpresa quotidiana che ad ogni giorno e notte si rinnova. Insegno filosofia in un liceo di frontiera, ma i confini, si sa, sono un’invenzione e la realtà riesce anche a superare metafisica e immaginazione. Scrivo quando le parole assomigliano a quel che sento e sono: a volte penso, a volte vivo, il più delle volte devo invece impegnarmi a sopravvivere. Dal 2015 collaboro a LRì, un’esperienza azzurra di amici, amiche e di parole.

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