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Philippe Daverio

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Immagine dell'Autrice

Ecco, lo rivedo così, mentre si inerpicava sul colle di Capalbiaccio, con noi dietro, arrancanti, ma giovani e entusiasti. Brandiva un fetentissimo sigaro toscano, agitandone il fumo per difenderci dagli assalti dei tafani che infestavano il terreno incolto. I capelli lunghi, ricci, biondo scuri che volavano, l’andatura veloce e sicura, il corpo un po’ grassottello ma robusto e armonioso. S’era messo in capo di farci conoscere la preistoria di Capalbio. Arrivati in cima, con la sua voce dall’accento tra varesotto e alsaziano, ci raccontò la storia degli antichissimi ruderi, e a noi parve di intravedere, a passeggio fra le rovine, strane persone in abiti medievali. Giuro, li ho visti anch’io. Lui sapeva far apparire universi.
Saranno stati la fine degli anni ‘70, circa. Lui era così, sempre. Fantasia, energia, cultura. Allegria. Fascino. E noi, una raccogliticcia banda fra milanesi e romani, che aveva scelto il bel paesotto ben lontano dal mare per il fascino della macchia mediterranea, sì, ma soprattutto per il basso prezzo degli affitti, sempre dietro di lui. Feste con la pecora arrosto, visite in sperduti borghi dell’interno, bagni di mezzanotte a Macchiatonda, corse di cavalli attraverso la Maremma fino al mare.

Arrivo della corsa di cavalli “Il Pomo-doro” – Foto dell’Autrice

Lui allora si divideva tra la rustica casona che aveva preso in affitto giù in basso, verso il Chiarone, quasi al confine col Lazio, e che aveva arredato con un occhio acuto e insieme spiritoso, raffinato e selvaggio, e l’altrettanto seducente casa di Milano, città dove ebbe, una dopo l’altra, due gallerie d’arte. Non avete idee della folle meraviglia dei suoi vernissage, dove s’incontrava gente di tutti tipi – sì, anche intellettuali, lo ammetto – ma anche vecchiette fornite di sacchetto dove infilare rapide gli squisiti bocconcini che venivano serviti assieme agli aperitivi. Ci si divertiva.
Aver conosciuto Philippe Daverio è stato un privilegio senza pari. Era buffo, intelligentissimo, curioso di tutto. Io lo trovavo persino bello, a modo suo. Poi lui lasciò Capalbio, io lasciai Milano, e ci perdemmo di vista. Lo seguivo solo per televisione, ormai, e me lo facevo bastare. Era talmente bravo!

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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