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Costumi Società

Pronto Soccorso

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Ciak!

-Sta tranquillo, che prima o poi ti chiamano.
-L’avvisi tu Maria e Flavio? Ma no, non facciamoli preoccupare, forse è meglio non dire niente, aspettiamo.

Comincia il campionario delle suonerie. Sembra che manipolare quello strumento dia un’idea di normalità, ognuno si illude di continuare a fare le stesse cose di prima che arrivasse in questo posto, quando si sono addensate nubi sui suoi pensieri che sino ad allora non aveva. Per ogni bisognoso di cure c’è quasi sempre qualcuno vicino, che lo ha portato lì e partecipa all’attesa.

-quanti sono quelli prima di noi?
-posso venire dentro pure io? No! Si entra soli.
-quante volte ti ho detto di non fare il riso che poi sto male?
-e io quante volte ti ho detto che il riso per te è veleno e lo faccio solo per me?

Viene spontaneo, stando seduto e a testa in giù, in posizione pensierosa, che lo sguardo cada sul pavimento e anche sulle scarpe che indossano. Pantofole, scendiletto, ciabatte, con o senza calze. Testimoniano un passaggio improvviso, inaspettato, quasi fraudolento da uno stato piatto, abitudinario, casalingo, a quello traumatico, improvviso e ansioso che con una corsa sul primo mezzo utile, ti porta verso una situazione sconosciuta e certamente temuta.

Quelli che arrivano da un posto di lavoro calzano quelle che avevano quando è successo quel qualcosa. Infatti, nessuno verrebbe in un posto del genere con i tacchi a spillo, le calze nere forse autoreggenti, gonna quasi mini e tracolla gigantesca. Eppure, una titolare di tutto questo c’è ed è affabile per mestiere, perché, alla fine della lunga, alternata convivenza con sedie occupate da vicini in attesa, salutando, sibila a una coppia chiacchierona: «allora vi aspetto, sono appena arrivati campioncini deliziosi», e probabilmente ritorna con la stessa persona dell’andata, in profumeria.

Ci sono anche quelle maschili da lavoro, da cantiere edile, visto che hanno tutta intatta la polvere presa sin dall’alba. Moglie giovane, non presente ma nei pensieri. Quali? Se li ripassa a voce fioca approfittando di un vicino ancora frastornato, paziente e curioso: «Non la posso chiamare. Sta al lavoro e il capo pasticcere non vuole distrazioni quando è il momento di riempire i bignè con la chantilly, e poi aspetto che mi dicano qualcosa, altrimenti quella non ci crede. Mi daranno un documento alla fine? Speriamo, dovrò portarne uno anche al capomastro. Quello è stronzo. Quando è successo cercava tracce di sangue, perché un muratore-carpentiere sull’impalcatura quando si accascia, senza una goccia di sangue, e che bisogna pure portarlo al Pronto Soccorso, non è mica tanto credibile. Avergli detto che mi girava la testa prima di svenire non bastava. Speriamo che mi facciano andare prima che il cantiere chiuda. Ecco, a lei dovrò proprio dirle quello che ho pensato cadendo tutto d’un botto, le dirò che deve andarci piano, che si, siamo giovani e appena sposati, ma che passare dalle lenzuola al montaggio di tubi-innocenti su un’impalcatura può essere pericoloso». L’altro annuisce fingendo partecipazione, ma ha la testa occupata.

-Quante volte ti ho detto che alla cooperativa non devi più giocare a briscola a soldi? Che poi ti agiti, alzi la voce, e se perdi è anche peggio, ricordati che sei del ’32 con la pressione alta e non ci sono sempre coetanei tuoi che ti capiscono e qualcuno, più giovane, più bravo con le carte e che grida più di te, lo trovi e alla fin chi sta male, non sei solo tu, perché sono io che ti devo accompagnare. Te lo meriti proprio, ma mò mi sò proprio stancata.

-Che spavento ci ha fatto prendere, ma dico, se non sa controllarsi non è che noi possiamo fargli anche da bàlia. Per me lo ricoverano. Si, e lo operano pure, così la finisce di dire che ha l’ernia strozzata, gliela tolgono e basta. Ma non ha mica ricambi di biancheria, come farà? Se lo ricoverano qualcosa da mettersi gliela daranno, tipo quei camici che si allacciano dietro, mi viene da ridere al pensiero, sarà capace? Si, ci sono gli infermieri o peggio le infermiere. Piuttosto, domattina ci vengo prima io a trovarlo e gli porto qualcosa. Non cominciare, ci vengo io al mattino quando sopporto meglio situazioni di angoscia, tu mi darai il cambio, così a casa approfitti per dare una pulita generale, che poi, quando lui rientra, vedrai quanti vorranno vederlo e a lui può fare solo piacere che tutto sia a posto, lo sai come è fatto. Far sapere come ci sanno fare tre uomini in casa lo inorgoglisce.

Alzando lo sguardo si vedono tanti cartelli mantenuti con cerotti alle pareti, pure quelli della “Violenza sulle donne”, con uno molto piccolo che ricorda il segno silenzioso da fare in caso di bisogno, “il pugno chiuso con il pollice dentro”. Altri cartelli chiedono, in tutte le lingue di avvisare il personale se le donne sono incinte, questi, invece, sono solo in italiano, sarà che combattere la violenza sulle donne è patriottico. Ce n’è uno su ogni parete e anche nel gabinetto che è ambosessi e ben frequentato. Qualcuno scommette se il prossimo utilizzatore chiuderà la porta lasciando il WC usato, così ne esce una percentuale raccapricciante, il 2%. Ma dai, con i pensieri che occupano tutti non si può pretendere che uno va a pensare di chiudere la porta del gabinetto o che dopo si lavi le mani, figurati. Poi il Covid non c’è più.

Come nei supermercati trovi i carrelli che ritiri con la monetina, così qui puoi usare una sedia più larga con rotelle, se riesci a districarti con la catenella. –Mamma aspetta qui che ti faccio mettere comoda, ecco siediti. Grazie, per fortuna che mi hai risposto subito al telefono, sono una mamma fortunata. Sta tranquilla, mamma, la cassa integrazione è lunga, potrai chiamarmi quando vuoi.

Convinto di stare altrove qualcuno tiene ancora attivo il vivavoce:

Josèphine? Finalmente! Mi è successa una cosa terribile. Cosa dice “dottore”? Ho avuto un malore appena sceso dal taxi. Ora sono in un Pronto Soccorso. Si, in periferia a Milano, devi assolutamente inventarti qualcosa, sicuramente l’appuntamento che ho fra un’ora mi salta, devi metterci una pezza come solo tu sai fare. “Dottore”, ma questo era propedeutico all’altro, quello dal direttore della banca, proviamo a trovare con tutti la solita scusa dei ritardi dei mezzi italiani? Jo! Sono arrivato da Losanna in aereo, era pure svizzero, il biglietto l’hai fatto tu, ragioniamo, che diamine! Va bene “dottore”, m’invento qualcosa, ma lei come sta? Non lo so, certamente mi sento nella merda. Ora lo sanno tutti in quale stato si trovi il “dottore” che pure con l’Armani sgualcito, i gemelli d’oro. le Church’s ai piedi e la borsa uguale avrebbe fatto una bella figura all’appuntamento (certamente da una finanziaria, perché in realtà è uno bisognoso) e anche l’applomb è andato e ormai la chiama Jo e quando si usa il diminutivo è segno che il nostro è d’avanti al plotone d’esecuzione e sta per arrivare l’ordine senza ritorno e lui lo sa e alla fine supplica: Jo, sàlvami! Poi fa una cosa inaudita, ma sintomatica del momento che sta passando: quasi si strappa dal taschino della giacca una compostissima pochette, l’appallottola e si deterge il sudore che ormai gli ha coperto la fronte. Il ritegno è ormai estinto e si adegua.

Ora, nell’immaginario comune, il Pronto Soccorso è quel posto dove arrivano persone, meglio, corpi di esseri umani di varia età e sesso e anche di etnia, tutti toccati da qualcosa di terribile ingrandito dall’inconscio, in genere sanguinanti, privi di sensi, contratti nella fisionomia per dolori oscuri, messi alla rinfusa su una barella, qualche volta pur con un tocco di maestria horror.

Invece, ripresa coscienza, dopo una o due ore di attesa, queste persone, se proprio non traumatizzate, si trasformano tutte in spettatori. Curiosi per quali saranno i prossimi arrivi. Attenti a vedere il quadro come si presenta, che sembra un’opera di Bosch, con tanti sconosciuti che col passare delle ore lo sono sempre meno. Sincerità per sincerità, presto, saranno pronti, dimenticando il proprio stato, per dare risposte al quesito che gli si pone davanti: ma, chi sarà mai, cosa gli è successo? Uno nuovo arrivato, perché ormai il “dottore” lo hanno già preso in consegna e la porta scorrevole gli si è chiusa alle spalle.

Quando quello che si è divertito di più in queste ore, finita la lunga trafila da protocollo, riappare dalla fatidica porta scorrevole, si sente subito addosso la curiosità di quello che prima lo aveva intrattenuto per criticare la politica e, manco a dirlo, la sanità. Lui che ha finito (lo si capisce dal foglio in mano) ed è rilassato nella certezza almeno di tornare a casa con le proprie gambe, si concede. Dice che lo hanno visitato e toccato tutto. Frattanto gli interessati a lui sono di più. Enfatizza come suo solito: Mi hanno prelevato tanto sangue che hanno messo in tante boccette con i tappi di tanti colori diversi. Mi hanno detto subito che per i risultati di quelle analisi sarebbe passato il tempo necessario, non poco. Poi mi hanno fatto l’elettrocardiogramma e poi ad un altro piano un ecodoppler. Il capannello si infittisce. Uno dice a quello di dietro ecco perché impiegano tanto tempo, certo, se è un taglio, due punti, l’antitetanica e via. Ma se non c’è il sangue e ti sei sentito solo male le indagini sono più complicate. Dicendolo non nasconde un certo risentimento per chi è stato causa di un rallentamento dello sfoltimento dei tanti “colleghi” in attesa in quella sala.

Poi, il curioso, appropriatosi della parte in questa recita, si sente in dovere di chiedere, anche a nome degli altri: «Ma, insomma, ora come ti senti?»

Ormai col “tu” sono cadute tutte le barriere, sociali comprese, e poco alla volta si dissolve quel curioso “Carro di Tespi” improvvisato bene, dove ognuno ha certamente interpretato al meglio sé stesso. C’è sempre tanta varia umanità in questi posti, mi sa che ci torno, è una miniera.

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ANTONIO QUAGLIARELLA

Pugliese del ’44, una decina d’anni in ogni provincia e, partendo da Lecce, ha emigrato nel 2003 in Lombardia. Proprio l’anno del grande caldo, con questa regione in testa per il maggior numero di anziani sopravvissuti. Sempre nel campo finanziario, ha smesso (fortunatamente) di dare consigli il 30 aprile del 2013. Servizio militare assolto con gioia e onore nei Parà, la Toscana gli entra nel cuore in quel periodo, era 1968. Non resiste per tanto tempo a niente e a nessuno, quando ha potuto farlo si muove di conseguenza, riconoscendosi il merito di saper vivere con piacere in contesti molto complessi e diversi e questo sin da bambino. Ogni volta prova la stessa sensazione di avere di fronte una vita nuova di zecca da scoprire e questo gli moltiplica le forze. Viene cooptato nel Rotary International e si merita la Paul Harris Fellow, appena prima che istituissero il numero chiuso per i terroni. Questo continuo frazionamento di vita lo porta alla convinzione che l’ultima persona vicina non potrebbe mai avere sottomano una storia completa (quasi) della sua vita. Così comincia a scrivere. Ne fa le spese, di questo fiume di inchiostro, La Rivista Intelligente e la sua “mamma” Giovanna. Essere sé stessi sempre, qualche volta anche juventino, ha un prezzo da pagare. Solo una donna sempre al suo fianco, dai tempi della migrazione e l’accoglienza, continua a fargli sconti e a dargli credito e lui l’ha legata a doppio filo alla sua vita, ormai finalmente stanziale.

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