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La scrittrice muta

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Autoritratto dell'Autrice

 Io sto benissimo, grazie e tu? I nuovi occhiali sono quasi pronti e spero di ottenere finalmente l’apparecchio acustico. La schiena mi fa male. Il cervello no, perché ha smesso di funzionare da tempo. Il Covid per ora non l’ho preso, ma altri mali mortali potrei covarne a iosa, a mia insaputa. Non ho alcuna intenzione di informarmene. Non voglio saperne niente – e soprattutto ho paura a frequentare centri analisi e ospedali. Nel frattempo sono morti un bel po’ di amici e conoscenti, coetanei o anche meno vecchi di me. Alcuni di Covid, altri no. E’ la vita. No, è la morte. Fa lo stesso.

Io sto benissimo ma tu chi cacchio sei? Come ti chiami? Questa stanza ha una pianta rettangolare, una finestra rettangolare, una scrivania rettangolare. Come risulta evidente dal fatto che sto scrivendoci sopra, è anche fornita di un computer. E’ di quelli fissi, stabili, grossi – che puoi ingrandirci le lettere fino al numero più alto, e leggere bene bene. Sto finendo una mezza birra Peroni, con la sua bella etichetta rosso scuro. L’altra mezza l’ho bevuta ieri, poi ci ho applicato quel bel tappino adattabile che una mia amica mi ha regalato insieme a altri più grandi. Per quanto io compri solo birre piccole, non riesco mai a finirne una intera. Mi gonfia lo stomaco. Succede anche a te?
Ti scrivo io perché la scrittrice è diventata muta. Non solo non parla, ma nemmeno scrive. La scrittrice è muta. Se interrogata è ancora in grado di rispondere a tono, con bella scelta di termini, buon ritmo, originali metafore. Ma non ha niente da dire. O, piuttosto, avrebbe da dire il nulla. L’ha sempre detto, il nulla. Il quale pronto le rispondeva. Ne avrebbe ancora perfetta contezza, e lo descriverebbe composta, in poche sintetiche parole. In passato aveva sempre funzionato. Ma ora non più. Si chiamava scrivere, non le è mai piaciuto, ma le veniva bene. Mi ripeteva “non ho nulla da dire ma lo dico benissimo”. Io mi spazientivo. Ora però, pentita, la poverina si aspetta una spinta, perché, lei, di suo, non avrebbe, appunto, più nulla da dire, non le viene più benissimo, e non è in grado di darsi una spinta, le è impossibile, altrettanto quanto le è impossibile cavarsi da una palude tirandosi per i ricci dei capelli. Seduta al bordo della palude, le manine sparute che sciacquettano nell’acqua verdognola, aspetta una parola, una forma, un colore, l’eco di un’eco – perdute, ripescate giù al fondo grazie a una maggiore vibrazione. Perché nella sua mente esse poi vengano forgiate in una struttura, con una loro piccola, precisa maestà. Grazie alla capacità che la scrittrice sa di aver avuto: creare un universo agli occhi di chi legge.
Io, per aiutarla, non so cosa fare. Pungerla? Raccogliere le sue carte in mano mia, mostrarle l’ordine poliedrico che potrebbero assumere, ma che lei non sa vedere? Oppure potrei arrivarle all’improvviso alle spalle mentre, la testa poggiata allo stipite sbreccato del balcone, al bordo della sua stanza galera, contempla finestre murate sulle pareti del cavedio, dove la luce scende perpendicolare all’ombra – prenderle la testa tra le mani, girare il suo viso verso me, e quindi scoccarle un bacio in bocca? E’ probabile mi risponderebbe con uno schiaffo in faccia.
Vuoi sapere il suo motto? Lo confessò quando ancora parlava: “Non avevo nulla che una buona amnesia non avrebbe potuto curare”. Sostiene sia la più bella frase della letteratura mondiale. L’ha scritta un giallista americano di cui non ricorda il nome. Non basta a darle la spinta, comunque, c’è poco da sperarci, dice. Dice che il nulla è molto più esigente di così. L’amnesia, poi, dice lei, l’ha già avuta. Anzi, specifica di averne passate quattro. Tre da cinque ore, una da quattro. Non si ricorda niente, dice – sennò ne avrebbe scritto. Ricche passeggiate nel nulla. Tu, amnesie ne hai mai vissute? No? Non hai perso niente, mi dice di riferirti.
Ma tu che fai? Mi verrai a trovare in un giorno di sole, in queste stanze dove sono in prigione a custodire la scrittrice? Ci potremmo conoscere. Mi aiuterai? Io ti parlerei dei giorni che non sono più tornati. Ho una vasca bagno nuova, di quelle per disabili, con la porticina. Molto comoda. E’ da sempre che aspetto che la mia vita cominci, ma niente, non accade. Forse è un po’ tardi. Sospetto di non essere mai esistita, in effetti. Era lì l’equivoco di partenza. Vienimi a trovare, dai, magari tu mi vedrai, sono sola qui nel silenzio, nella polvere iridescente che danza filtrando tra gli scuri. Sei preoccupata per me? O per lei, tu mia sconosciuta ma curiosa amica? Ti garantisco che ne avrò cura finché avrò vita, ne avessi. Eventualmente, anche di te. Sono molto paziente.
Va bene, lo ammetto, il fatto è che la scrittrice muta mi ha fregata ancora una volta. Ha scritto, a mia insaputa, a propria insaputa, direi. Un bel sacco di parole. Avevo la schiena girata, ero distratta, guardavo dentro il display del suo computer, ti cercavo, ti parlavo, ti scrivevo di lei e del suo silenzio. Della mia disperazione e della mia speranza. E lei nel frattempo ha scritto, tutto. E quando dico tutto. Nascosta tra le frasche del salice, chiamando vento il fruscio delle sue parole. Invisibile. Così bene ha detto e ridetto il nulla, a volte chiamandolo niente. Il nulla da cui veniamo e dove torneremo. Che siamo. Esso vi appare limpido e profondo. Eterno e irridente in ricche perle traslucide, attraverso petali fragili. Eccolo, è qui, leggilo con attenzione.
Ti è piaciuto? Sei sconvolta, travolta, incazzata? Ma no, dai. Ti ci sei riconosciuta? Succede quasi a tutti. Vorrei ritracciare tra i morti un editore canuto che renda immortale il silenzio della scrittrice – che ne scolpisca in pietra i vuoti, per lasciarli in retaggio agli umani. Li ferisca per sempre.
Ti aspetto. Immagino quando verrai – immagino chiamerai un taxi – spero di quelli col plexiglass in mezzo. Scendi, paghi. Ora immagino che scruterai fra le sigle sul portone la nostra. Immagino di sentire il suono soffice del citofono. Schiaccio il bottone. Il suono dell’ascensore che sale. Io sulla porta. Aprirla: due facce coperte dalle mascherine – quattro occhi. Come sempre. Lei ci aspetterà, anche se non saprà che tu stai arrivando. Oppure ci abbracceremo, ci stringeremo, vieni qui sul mio petto. Saremo finalmente di nuovo una, come la parola che creò l’universo.
Driiiin. Hai suonato. Apro? Mi riconoscerai? Mi accetterai così come sono? Inguardabile, invisibile come sono. Non posso farti aspettare, devo assolutamente aprirti la porta, subito.
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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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