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ZOLFO

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immagine di Aglaja

I mortaretti esplosero, diffondendo un odore di zolfo e festa paesana. Matilde richiuse di scatto il libro che aveva in mano e sbuffò. La festa era iniziata, impossibile trovare pace per i prossimi quattro giorni.
Da ormai cinque lustri assisteva al patetico rituale della processione. Una volta l’anno la statua del Santo veniva imbellettata e tirata fuori a forza dalla Chiesa, un rapimento in piena regola. Non si è mai sentito di un simulacro che abbia chiesto di andare a spasso, appesantito da ex voto e gioielli, costretto a sfilare per le vie del paese tra pettegolezzi e false orazioni. In viso gli avevano scolpito un’espressione triste, da condannato a morte. “Dead Saint walking”, chiosò Matilde. E sorrise. Anzi rise, come faceva ai funerali. A quello più brutto della sua vita avrebbe preferito sentirsi dire congratulazioni piuttosto che condoglianze. I gusti personali esistono, ma le convenzioni sociali non lo sanno. Le persone più incomprese sono quelle che hanno il gusto dell’orrido.
La seconda raffica di mortaretti diceva che il Santo doveva essere arrivato a destinazione.
Boom! Mio padre è in prigione, mia madre sottoterra.
Boom boom! I Santi non esistono.
Straboom! La mia vita è il sogno di un pazzo.
Pensieri cupi banchettavano con il frastuono, mentre lei si sentiva come una cui il cameriere avesse scordato di presentare il menù. Annusò l’aria. Quel fetido odore di zolfo era penetrato sin dentro casa. Non aspettava nessuno e non aveva nemmeno ordinato la pizza, eppure qualcuno suonò il campanello. Sbirciò dallo spioncino, ma l’unica cosa che ci vide dentro fu un buco nero. Spalancò la porta. Niente, a parte una tegola rotta a pochi centimetri dallo zerbino. Mentre fissava la terracotta ridotta in frantumi, ricordò quel che diceva sua nonna: “Ascoltami bene, nettixedda[1], quando a terra cade una tegola significa che è appena passato di lì su dimmoniu[2]”.
Quella del diavolo e della tegola era un’antica credenza sarda. Quando nominava il diavolo la nonna arrochiva la voce, che sembrava ascendere direttamente dalle viscere della terra, ma Matilde non aveva mai creduto che su dimmoniu potesse passeggiare sui tetti facendo volare giù tegole.
Tornò dentro, e si trovò davanti un uomo. La morsa della paura la paralizzò. Era sola in casa, come sempre. L’uomo subodorò la tensione e parlò per primo: “Non temere, sono il Santo”.
Era proprio la personificazione del Santo della processione. Indossava uno sfarzoso abito vescovile, intessuto di fili d’oro. In testa portava una mitra che lo faceva apparire altissimo, e tra le mani aveva un bastone pastorale che in cima si avviluppava in un vortice d’oro istoriato. Non più rigido e sorretto dai fedeli come lo aveva sempre visto, ora si reggeva sulle proprie gambe e torturava con le mani la lunga barba bianca, guardandosi attorno. Non era una visione mistica. Il Santo era proprio là, in carne e ossa, e ruppe un’altra volta il silenzio: “Conosco tutto di te”. La voce suonava ovattata, nel clima sospeso tra surreale e grottesco. “Hai tante cose perdute da ricordare. Tua madre, tuo padre, la nonna…”.
Proprio così. Sua madre non c’era più, e a ucciderla era stato suo padre. Una sera la donna uscì e al suo ritorno il marito la aspettava sveglio, con un fuoco che lo divorava dentro. La gelosia non gli aveva lasciato nemmeno l’ombra di un’anima, alzò il braccio e in mano aveva un coltello. Gli occhi dell’uomo videro nero, poi rosso, e infine il lampo di vita fuggire via. Per lui si spalancarono le porte del carcere.
Dopo la tragedia Matilde fu accolta in casa da una zia, ma nel giro di poco tempo si sentì dire che ormai era diventata grande. La riportarono nella casa in cui era cresciuta, dove tutto andò in malora. Alla immeritata solitudine si aggiunsero fastidiosi problemi pratici: dai lavandini veniva giù uno stillicidio d’acqua e ruggine, i muri si riempirono di crepe e le lancette degli orologi smisero di girare quasi all’unisono. Ogni cosa le ricordava che era sola al mondo. Non parlava mai con nessuno, e quando lo faceva erano conversazioni neutre e impersonali. Si impose di apparire forte, coraggiosa e quasi insensibile. Certi giorni riusciva a nascondere i turbamenti che le ribollivano dentro, mentre in altri esplodeva, e allora gli scurini alle finestre diventavano barriere dalle quali non lasciava entrare nemmeno un rivolo di luce.
Una domanda inaspettata del Santo la riportò al presente.
“Vorresti che una delle tue cose perdute tornasse?”.
“Sì”.
“Cosa?”.
“Mia madre”. Rispose senza alcuna esitazione. Se sua madre fosse tornata, l’acqua avrebbe riacquistato la trasparenza, il tempo e gli orologi il loro senso, le crepe dei muri si sarebbero richiuse. Avrebbe ricominciato ad apprezzare le feste, e la vita. Non c’è peggior dolore di una festa che si ripete sempre uguale, sin da quando eri ancora felice.
Il Santo seguì con lo sguardo il vortice del bastone, e tutte le lancette ormai fossilizzate ripresero a ruotare velocemente, procedendo a tratti in senso orario e a tratti in direzione opposta, senza alcun criterio logico.
Matilde si chiese quali fossero le condizioni per ottenere il risultato sperato, ma il Santo non lasciò intendere altro. Tirò fuori da sotto la tonaca un ostensorio circondato da raggi d’oro. Al centro vi era la testa di un serpente. Estrasse poi un turibolo. Lo fece oscillare, diffondendo una nuvola di fumo denso. Matilde agitò le braccia per disperderlo, ma quando tutto fu più nitido, il Santo non c’era più. Si udì il nitrire di un cavallo, e poi una pioggia di tegole venne giù dal tetto.
Il mattino seguente in paese tutti parlavano delle campane della chiesa. Si erano spaccate in maniera irreparabile. Un suono sordo aveva svegliato il prete che, precipitatosi in cima al campanile, si trovò davanti uno scempio. A memoria d’uomo nessuno aveva mai visto delle campane ridursi a quel modo. Non poterono farle suonare neanche per avvisare dei vari decessi della notte prima. Alcuni giurarono di aver visto un carro nero trainato da cavalli dileguarsi nell’oscurità in prossimità delle case dei defunti, altri spergiurarono che fosse stata l’accabbadora, che approfittando della festa era andata a trovare i moribondi per finirli con il martello. Era stata una notte di diavoli e santi.
Al risveglio Matilde ricevette un telegramma con su scritto “Torno. Al faro”.
Uscì di casa presto. Comprò lenzuola e tende nuove, quadri per nascondere le crepe, pasticcini, un canarino bianco e un pesce rosso. L’ultimo canarino della casa era stato fatto volare via il giorno in cui era morta sua madre. Nessuno gli avrebbe dato più da mangiare, né da bere. Morì comunque, sbranato da un gatto, ma le fecero credere che sarebbe stato meglio a svolazzare libero piuttosto che rinchiuso in una gabbia senza la sua padrona.
Ora quella gabbietta era ricoperta di polvere e ruggine e la porticina dalla quale il canarino era uscito era rimasta aperta. Con pazienza, Matilde ridipinse una ad una le stecche di bianco. Lavò i piccoli abbeveratoi e mangiatoie e li riempì d’acqua e granaglie. Quando la vernice fu asciutta, infilò una mano nella scatola di cartone e trasferì il canarino nella sua nuova dimora. Lo sentì cantare, e le scese una lacrima. L’ultima volta che aveva sentito un canarino cantare era il giorno in cui liberarono quello di sua madre.
Mise poi il pesce rosso nella bolla di vetro. Mosse le labbra a vuoto per parlargli. Sarà un gran giorno Red, te lo garantisco.
Strappò via le tende sporche, le gettò in un bidone per sostituirle con quelle nuove. Appese ai muri tele raffiguranti schiuma di mare, donne distese al sole, fari luminosi nel buio. Per la prima volta si guardò intorno soddisfatta. Spalancò le finestre per far entrare aria, poi corse fuori. Il sole iniziava a calare. Imboccò la strada che conduceva al promontorio. Non voleva perdere gli ultimi riflessi del tramonto sull’acqua. Si inerpicò lungo un sentiero irto di sassi. Da lassù si vedeva anche l’Isola Foradada, un’enorme roccia in mezzo al mare con un foro che la trapassava da parte a parte come una finestra spalancata sull’orizzonte. Si rannicchiò, stringendo forte le ginocchia tra le braccia. Immaginò che a stringerla fosse la madre e riuscì a sentirne il profumo agli effluvi di lentischio e salsedine. Alzò gli occhi e scorse in lontananza un uomo che avanzava a tentoni lungo il pendio granitico, sparendo di tanto in tanto tra piante e arbusti, e rapido come avesse pochi granelli di tempo nella parte alta della clessidra della vita. In mano aveva un girasole.
Matilde riprese il cammino verso la meta. Il faro era lì, paziente e incastrato tra le falesie a picco sul mare. La luce bianca si accendeva e spegneva a intervalli regolari e i fasci luminosi ruotavano nel buio. Non era mai stata in quei luoghi di notte. Il mare ruggiva, aizzando gabbiani e colombi selvatici che la minacciavano con i loro lamenti. Il mormorio languido delle onde lasciava intuire che spesso i desideri sono trappole. Dall’esterno il faro sembrava un cubo bianco con in cima una gigantesca torre luminosa, bianca anch’essa. Il portone d’ingresso si spalancò a fatica, stridendo sopra decenni di polvere e terriccio. Il guardiano del faro aveva da tempo abbandonato il proprio osservatorio, ma i segni della sua antica presenza si leggevano nell’odore di casa distillato nell’umido e in una branda arrugginita. La scala a chiocciola che conduce alla lanterna dal basso provoca un senso di vertigine. Matilde ne fu attraversata mentre saliva i gradini stretti e alti. Voleva passare la notte in cima per attendere la propria madre e nel frattempo contare tutte le stelle visibili. Di tanto in tanto una finestrella incrostata di sale mostrava intere famiglie di pipistrelli che volavano ciechi in cerca di cavità rocciose, ma l’inquietudine non scalfì la meraviglia di trovarsi davanti la lampada e la sua corona di lenti riflettenti e sfaccettate. Si distese per non essere investita dal fascio di luce accecante.
Aveva appena iniziato a fare la conta delle stelle quando udì un eco di passi. L’uomo che poco prima vagava nella macchia con il girasole in mano si stagliò nella luce, tendendo il fiore verso di lei. Certo dell’ineluttabile rifiuto, tremava, gli occhi socchiusi sotto pesanti palpebre. Rughe profonde come cicatrici tracciavano un reticolato di sofferenza sul suo volto. La vita in carcere era stata un soggiorno agli inferi. La ragazza nel riconoscerlo spezzò il ramo del girasole.
“Matilde, sono tuo padre. Sono tornato” biascicò il derelitto con un velo davanti agli occhi. L’avevano fatto uscire con un permesso premio. L’aria fu improvvisamente satura di zolfo. Il diavolo sventolò la coda come un cane che abbia appena ricevuto un osso con ancora attaccato un pezzo di carne.
L’anima di Matilde sprofondò. Vide l’orlo di una gonna sparire tra i flutti. Sua madre non c’era e non ci sarebbe mai stata. Era solo spuma di mare.
[1]In sardo significa nipotina
[2]Il demonio
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MANUELA PODDA

Sarda ma non sardina, abbaio ma non mordo, non bassa ma diversamente alta. Scrivo perché esisto. A quella perfettina di Audrey preferisco Marilyn. Amo il silenzio dei libri, il caos delle città, il rumore del mare. Odio i traslochi e le biografie.

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