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Immagine di Jofan Liao

Vivo da anni con un vecchio gatto, l’ultimo di una ininterrotta serie di care bestiole che mi hanno accompagnato lungo la mia non felicissima vita. Una convivenza alla quale mi ha iniziato mia madre che a questo mondo amava i gatti più di ogni altra cosa, figli e persone comprese.

Da qualche tempo c’è in lui qualcosa di insolito, d’inquieto. La sua pigrizia felina, accentuata dal peso degli anni, s’interrompe nelle ore notturne: fissa le costellazioni, l’infinito, e le stelle. Dritto e silenziosissimo sul davanzale, ogni tanto si gira verso di me, mi guarda: è affettuoso mentre mi fissa, mi sento osservato risolutamente, con scrupolo anche se con discrezione gattesca; si capisce che questa sua attività è intenzionale, ha sue ragioni che a me però risultano in se stesse sfuggenti.

Conviviamo in questa piccola casa da anni, condividiamo i giorni e le notti, tutte le notti, io nell’insonnia, lui nel torpore del sonno abituale e felino. Abitiamo in periferia, al limite quasi dell’abitato, in queste città che si assomigliano tutte, fredde o roventi nell’avvicendarsi delle stagioni. Inospitali sempre, regolarmente.

La cosa andò avanti per giorni, per tutta l’estate il mio gatto scrutò il cielo notturno e mi dedicò la premura del suo sguardo affettuoso.

Adesso anche io ricambiavo queste sue occhiate, ormai quasi si conversava in silenzio, nell’afa, in questa nostra piccola casa. Tutt’intorno praticamente il deserto.

Io bene non stavo: il mio respiro peggiorava sensibilmente, alla fine del mese di agosto era una sofferenza reale tirare anche quel poco necessario di fiato.

Il micio guardava le stelle, le scie delle luci, la luna, e più oltre. Adesso ogni tanto si avvicinava. Mi faceva le fusa, strusciava il testone sulle mie mani. Poi tornava al suo davanzale, il muso diritto, gli occhioni astronomici bene attenti e rapiti a studiare la sera, il profondo del buio.

Venne alla fine anche l’ultima notte, l’avevo capito e la aspettavamo.

Non avevo paura, solo un grande rimpianto. Piano piano, in silenzio, il mio amico mi aveva abituato alle luci nel buio, a guardare più oltre, a scivolare leggero da confine a confine, dal giorno alla notte, lungo un declino.

Adesso avevo meno paura del buio. Forse avrei ritrovato qualcuno, forse ci sarebbe stata ancora una luce.

Con il mio amico celeste affrontavo quel che da sempre fa più paura agli umani: mai niente è riuscito a sgomentarmi di più della prospettiva del vuoto, della presenza infinita, senza coscienza, del vuoto.

Era su questo che ci stavamo interrogando da tempo, in silenzio, tra noi solitari, tra le stelle imbrunite, occhi negli occhi, quelli profondi e affettuosi di un uomo e di un gatto.

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MASSIMO SALVADORI

Nasco a Modena, ma rivendico ascendenze liguri, toscane, venete. Trapiantato a Napoli, rimango uomo di pianura: il grido dei gabbiani è una sorpresa quotidiana che ad ogni giorno e notte si rinnova. Insegno filosofia in un liceo di frontiera, ma i confini, si sa, sono un’invenzione e la realtà riesce anche a superare metafisica e immaginazione. Scrivo quando le parole assomigliano a quel che sento e sono: a volte penso, a volte vivo, il più delle volte devo invece impegnarmi a sopravvivere. Dal 2015 collaboro a LRì, un’esperienza azzurra di amici, amiche e di parole.

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