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Ancora cento anni vecchietta

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Conosco una vecchietta, io.
Piuttosto malandata, devo dire. Pensate che ci vede proprio pochissimo, e questo non rende la sua vecchiaia tanto piacevole. Ha sempre paura di cadere, magari rompendosi (nonsiamai) il femore, quando l’accompagnano a fare un giretto per le strade del quartiere. Un giorno, in effetti, il femore se l’è rotto sul serio, con tutte le conseguenze del caso.
Ma lei niente, per quanto fragile e cagionevole possa sembrare, si riprende sempre e torna a tiranneggiare in casa sua, soprattutto a spese del rassegnato marito, persona di infinita mitezza, innamorato di lei come nel giorno del loro incontro, tanti anni fa, e dotato di proverbiale pazienza.
Sì, perché tiranna e dispotica lo è sempre stata, diciamo la verità. Buona come il pane, gentile nel tratto, ma dispotica, la vecchietta.
Ne sanno qualcosa i suoi figli, che prima di contraddirla su qualsiasi argomento ci pensano non una ma cento volte, senza naturalmente mai farlo. Ora sono sulla cinquantina, questi figli, ma mica è cambiato niente. La mamma ha sempre ragione, e guai a chi la contesta.
Si sa, l’età avanza, e la nostra vecchietta cominciava ad accusare diversi acciacchi. Disturbi di una certa serietà, il cuore, la circolazione, cose così. E i medici le intimarono di fare esami su esami: radiografie, ecografie, Tac, in numero così elevato che la vecchietta era sempre in viaggio per qualche ospedale, anche perché gli ospedali sbagliavano spesso e ordinavano la ripetizione di questo o di quell’esame. Inoltre, c’erano di mezzo gli scioperi: dei taxi, del personale paramedico, degli amministrativi. Così una volta suo marito, che l’accompagnava sempre come un fedele scudiero (anche se pure lui non è che stesse poi così in forma) chiese aiuto a un parente stretto: un altro vecchietto fragile e minuto, che ebbe il compito di accompagnarli in macchina all’ospedale di turno.
Lunghe attese in sala d’aspetto, ecografie, analisi, Tac, una mattinata infernale. All’uscita, al fragile trio venne una brillante idea. Qualcuno disse: “Facciamoci una bella passeggiata per recuperare la macchina nel parcheggio multipiano”. E tutti annuirono fieramente. A Roma. In agosto.
I tre, intimamente poco convinti ma baldanzosi, si avviarono reggendosi l’un l’altro passetto passetto.
Arrivati, stremati, alle scale del parcheggio, l’ascensore fu subito escluso, come opzione per raggiungere il primo piano. Restavano le scale fisse, ovviamente impraticabili per un terzetto così scalcagnato, e la scala mobile.
Non so bene come accadde, fatto sta che la vista molto debole della vecchietta, la paura di mettere un piede in fallo o la coda del diavolo che, è chiaro, li seguiva sogghignando, furono fatali. I tre ruzzolarono l’uno sull’altro sul primo scalino, procurandosi ferite ed ammaccature di varia entità. L’implacabile scala li scaricò, malconci, al primo piano e, naturalmente, ad avere la peggio furono alcune fragili ossa della vecchietta. La quale, per inciso, pare abbia gridato “Non voglio morire così! Non cosììì!!!!” richiamando opportunamente l’attenzione dei primi soccorritori.
Tempestivo (e anche un po’ umiliante) fu il rientro del trio, in ambulanza, in ospedale, il quale era ancora lì, salvifica montagna di mattoni, ad aspettarli sornione davanti al parcheggio.
Dopo un mese di degenza, la vecchietta è finalmente rientrata a casa, rimessa laboriosamente in sesto da uno stuolo di specialisti.
L’ho sentita proprio ieri al telefono: impartiva ordini gentili ma imperiosi a marito, figli, infermiere varie, e si capiva benissimo che tutti eseguivano ligi, senza fiatare.
La pace e la normalità sono finalmente tornate, per durare almeno altri cent’anni.

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