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I nuovi italiani: la Gambia

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La bandiera della Gambia

Una nazione a forma di fiume. O, se preferite, il contrario. La mappa geografica della Gambia, Africa occidentale affacciata sull’Atlantico, ricorda quelle cartine dei nostri libri di scuola media, che rivelavano la reale conformazione dell’Egitto, oggi come ieri: un paese che trae la sua ragion d’essere dalle zone bagnate e fertilizzate dalle piene del Nilo.
Immaginate che tutte le zone desertiche scompaiano per magia, assorbite dal Senegal che l’accerchia, e avrete subito una visione chiara di questa nazione-fiume o, se preferite, area golenale fattasi stato.
La Gambia (eh, si dice così) ha una bandiera bellissima, rossa, blu e verde, a strisce orizzontali separate con raffinatezza da righe bianche, che le conferiscono una certa nobiltà. Anche i toni di quei tre colori sono declinati in modo raffinato. Il rosso tende al bordeaux, il blu, fascia leggermente più stretta, al viola cobalto. Il terzo infine è di un verde oliva così sorprendente che ti viene voglia di avere un salotto tappezzato con la stoffa della bandiera gambiana.
L’Impero Britannico ha concesso l’indipendenza alla Gambia nel 1965, e da allora i Mandinka, ma anche i i Fula, i Wolof, gli Jola, i Serere, i Serahule, in tutto meno di un milione e ottocentomila persone, sopravvivono di agricoltura. Un dollaro e venticinque al giorno è tutt’altro che una buona media per degli ex membri dell’Impero, diventati nazione islamica sotto la guida del presidente Jammeh, da più di vent’anni al potere. Evidentemente lui guarda al mondo arabo con speranze più concrete di quelle evocate dagli antichi legami con la regina, e i suoi cittadini sembrano condividere questo orientamento.
Infatti i Gambiani difficilmente emigrano in Inghilterra. Molti, moltissimi di loro hanno scelto l’Italia come punto d’approdo europeo, e questo è un fatto comune a molti per ovvie ragioni geografiche.
Ma molti ci restano. Ben 13.500 gambiani hanno fatto richiesta di asilo qui da noi, tra il 2015 e il 2016. Quelli simpatici, e sono molti, li incontriamo sulla spiaggia, carichi di merce da quattro soldi che spesso acquistiamo pure, perché sui colori i Gambiani ci azzeccano, c’è poco da fare.
Quelli meno simpatici invece, almeno qui a Roma, li vedi in gruppi di sei, otto, dieci, agli angoli delle stradette del Pigneto o della Garbatella. Stanno tra loro, difficilmente ti rivolgono la parola. Hanno qualcosa da vendere e, per averla, non serve parlare tanto.
Alcuni, i fortunatissimi, giocano bene a pallone e magari finiscono a rinforzare a bassissimo costo squadrette locali o addirittura squadre professionistiche.
Altri poi hanno il vizio di fare a botte di brutto, e finiscono in cronaca per aver malmenato qualcuno. Non vi consiglio di litigare con un mandinka, detto tra noi. Sono piuttosto nervosi, terrorizzati da quell’orco da film dell’orrore del presidente Jammeh, che li vede come il fumo negli occhi. Insieme agli omosessuali, che proprio non sopporta visto che, come può, gli affibbia il carcere a vita e gli è andata anche bene. A Banjul infatti, la vecchia Bathurst inglese, capitale dello stato-fiume, il sangue scorre con facilità per questo motivo.
Ex wrestler, ex capo della polizia, ex essere umano, l’orrendo despota si ispira a personaggi del calibro di Amin Dada o Jean Bedel Bokassa, dominando con stregonesca ferocia il suo piccolo stato. Echi di schiavismo, antiche fortezze inglesi abbandonate, traffici inconfessabili che risalgono al periodo in cui la Gambia finì venduta nientemeno che al duca di Curlandia, oggi Lettonia, ci raccontano una storia coloniale di inimmaginabile tristezza.
Per concludere con un’iniezione di ottimismo e (perché no) di orgoglio nazionale, vale la pena citare la storia di “Bondu”, gambiano gay sbarcato a Lampedusa nel 2015 per sfuggire all’orco Jammeh. Bondu ha vent’anni e, ottenuto lo status di rifugiato dalla Commissione territoriale ligure, vive e lavora finalmente sereno a Genova. Orfano di genitori, in patria amici e parenti avevano condannato senza mezzi termini la sua relazione con un coetaneo. A quanto pare, qui da noi è felice. Non avrebbe mai creduto che esistesse un luogo dove la sua natura non fosse oggetto di persecuzione.
Speriamo che la felicità di Bondu sia di lunga durata e che aiuti anche noi, a esserne davvero all’altezza.

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