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LO RIFAREI – Riccio, l’Italia e il PCI

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La vita di partito. Oggigiorno, si sa, la parola “partito” suona come una specie di insulto. Figurarsi il dedicarvici una vita intera, diviene una sorta di bestemmia. Nel funzionario di partito, l’immaginario comune vede un semiuomo dedito anima e corpo ai comandi terzi, asservito all’ideologia più bieca, con un comportamento il più grigio possibile. E come si può, dunque, averne nostalgia? La maggioranza di noi sarà tentata di dire che è impossibile, anche se quell’immagine grigia era falsa, anche se, nei fatti e per chi l’ha vissuta, quell’esperienza è stata un bagno di umanità e insieme un percorso intellettuale che ha dato un senso alla vita. Comunque questa sia andata a finire.
Francesco Riccio ci racconta in prima persona, con ironia, semplicità e affetto, il suo personale viaggio in quel microcosmo affatto rinchiuso in se stesso, quanto invece composto da persone che sapevano ridere. Di loro stesse e del mondo. E il comune denominatore, dal semplice militante fino al dirigente, passando – appunto – per il funzionario, era la passione politica, invero da declinarsi come amore per il proprio paese. Sì, amore per il proprio paese, da Gramsci a Berlinguer passando, naturalmente, per Togliatti: ecco perché il Pci era proprio una cosa differente rispetto a Mosca e dintorni.
Piacerà soprattutto a chi ha condiviso quell’esperienza, eppure, nel libro di Francesco Riccio “Lo rifarei – Vita di partito da via Barberia a Botteghe Oscure”, edito da Strisciarossa, con prefazione di Gianni Cuperlo, la nostalgia non è per il Pci in quanto tale. Cosa l’autore rimpiange è tutta quella umanità straordinaria che ha affollato la sua storia, umanità incontrata prima in uno dei suoi centri vitali, la mitica federazione bolognese di via Barberia, e poi nella sede per eccellenza, ossia Botteghe Oscure. Dapprima militante, quindi funzionario, poi responsabile per anni delle Feste dell’Unità e, infine, tesoriere del Pds-Ds, quando dovette confrontarsi coi debiti, Riccio scrive una sorta di autobiografia collettiva fatta di personaggi, situazioni, battute, amicizie, simpatie, retroscena che hanno accompagnato la sua esperienza, restituendoci un quadro inedito di quel tempo. La domanda, portata al tempo presente, è, semplicemente, perché? “La militanza è tiranna – scrive Cuperlo nella prefazione – ti sottrae vita, affetti, famiglia, tempo, svago, ogni cosa, ma in cambio di cosa?”. Quando ti chiedevi perché, per l’appunto, “te lo ripagava la coscienza che a farlo erano persone come te che credevano che avesse un senso farlo”. Il senso, in fondo, era quel modo in cui ognuno, dal militante al dirigente, pensava di portare il suo, piccolo ma significativo, grammo di valore aggiunto al miglioramento economico, culturale, civile dell’Italia. Ed era proprio quello l’apparato che garantiva il contatto col territorio e con la conoscenza dei sentimenti e dei bisogni dei cittadini. Una volta tolto il finanziamento pubblico, e pure la preferenza sulle schede, con i partiti in crisi passati prima allo stato liquido e poi a quello gassoso, questo contatto è del tutto scomparso. Se una nostalgia c’è, insomma, è quella del partito presente, che si sente e si vede nella società e nel territorio. “Ciccio”, come lo chiamavano tutti a Bologna e a Botteghe Oscure, inizia il libro parlando di Francesco Neri, l’uomo dei numeri alle Feste dell’Unità (“Quando distribuisci centinaia di migliaia di pasti conosci l’importanza di calibrare e di non sprecare sale o altri ingredienti”). Era di origini contadine, Neri, il suo mondo erano una bella casa di campagna e la sua cantina. “Pensa – diceva con ironia – grazie al Pci ho fatto persino l’assessore alla cultura del mio paese, io!”. La sua figura è descritta con grande amore perché è il simbolo di quella categoria di persone che ha dato la vita al partito senza chiedere nulla, poltrone, fama, soldi. Solo perché “ci credeva”. E quando il sogno del Pci finisce e diventa un’altra cosa, anzi “La Cosa”, la tensione si taglia a fette e Francesco Riccio la ricorda così: “I telefoni squillavano in continuazione. I corridoi di Botteghe Oscure erano una grande piazza, lacrime e razionali discorsi si mischiavano in un clima che non era assolutamente, in quel momento, di entusiasmo da nuovo inizio. Molti raccontavano di liti in famiglia. Furono i compagni più anziani a fare in modo che la ragione politica prendesse il posto dell’emotività”. Innamorato, come moltissimi, del Pci di Berlinguer, Riccio vive tutta la lunga trasformazione seguita alla caduta del Muro di Berlino, dalla nascita del Pds fino alle soglie del Pd. Non ha avuto un posto in parlamento, ma dal partito, senza chiederlo, ha avuto molto. E ricorda il rito della prima tessera: allora bisognava essere presentati da due compagni conosciuti dal direttivo della sezione, poi c’era un colloquio e il comitato si riuniva per decidere se accettarti o meno, altro che i due euro per far votare il segretario di partito dal primo che passa. Ha avuto uno stipendio, ha potuto completare gli studi, ha viaggiato molto: perché l’organizzazione delle Feste nazionali dell’Unità, da cui dipendeva gran parte del finanziamento del partito, era una macchina incredibilmente complessa: bisognava invitare delegazioni estere, personaggi, leader, pensare agli spazi, alle scenografie, alle mostre, agli spettacoli. Questa esperienza, condivisa con molte altre persone, è stata fondamentale per Riccio: quel partito, che era tutt’uno con gran parte della cultura italiana del dopoguerra, ha “restituito” cultura, conoscenza ed esperienza a tutti, dal semplice militante al leader, formando in tal modo la sua classe dirigente. Quando è diventato il tesoriere, Riccio ha fatto parte del cosiddetto “club dei tesorieri”, perché tutti i partiti, tranne quelli personali, avevano gli stessi problemi. E’ stata una rincorsa a spendere meno, a ridurre il personale, a tagliare da ogni parte, ad andare in banca a chiedere soldi e dilazioni, a far quadrare quello che non poteva più quadrare. Racconta, non senza autoironia, gli incontri con Geronzi e Cuccia, alla caccia di prestiti.
Riccio ha lasciato la politica come tanti militanti e funzionari, senza sbattere la porta. “Ci abbiamo provato, ci siamo anche divertiti. E non siamo pentiti”. Un solo consiglio al Pd, ma in generale ai partiti, se vogliono esistere: “Riapriamo le sezioni e i dibattiti”. È una ricetta giusta, anche se la storia non torna mai veramente indietro, andando sempre avanti, e guardando a cosa il presente può fornire. Cosa pare impossibile oggi, in fondo, è il poter avere una comunità dentro cui sentirsi a casa propria, insieme ad un sogno e ad un orizzonte verso cui tendere.
E allora, magari, eccola finalmente lì, davanti a noi. La nostalgia.
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SIMONE LORENZATI

Scrivo dal 2008 e sono iscritto all'Ordine dei giornalisti, come pubblicista, dal 2011. Ho scritto per l'Eco del Chisone, il Corriere Sportivo, Le Valli, l'Ora del Pellice, My Red Carpet e Palomarblog, il blog della Fondazione piemontese dell'istituto Gramsci. Ho scritto per le pagine culturali del Corriere della Sera nell'edizione piemontese/ligure/valdostana. Attualmente collaboro anche con Re-movies e Belfagor, blog di politica e cultura. Ho scritto di musica, cinema, libri, sport, cronaca ed economia, cercando sempre di far parlare la coscienza civile e il bello, ché di nera e dintorni scrivono già in troppi. Parallelamente suono la batteria da trent'anni e ho suonato in diverse rassegne torinesi e cuneesi, idem per quanto concerne i live nei locali. Tre date al Torino jazz festival, in manifestazioni di contorno, e gruppi con cover di Paolo Conte, di Sting, di Gipo Farassino. Insomma un amore per le sette note a 360°. Ma, specialmente, quando a prevalere è lo swing.

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