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Racconti

L’ultimo volo del Piccolo principe

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Immagine di Stefano Navarrini

Doveva essere solo un volo di prova, un volo tra i tanti, adesso compiuti uno di seguito all’altro: così numerosi da nemmeno contarli. Erano state una volta missioni contro il nemico, che adesso invece non c’era. Non ci credeva che fosse finita la guerra. Un po’ di spocchia restava, e anche il disprezzo per la vita normale, comune. Ma tutto finiva al decollo, e il mondo restava solo una zolla di terra.
Gli aristocratici sono così per natura, soprattutto i cavalieri del cielo, nobiltà a cui solo la guerra può garantire un’impresa adeguata. Poco importa se sotto l’insegna che garrisce nell’aria si tronca e si spezzano ossa, si fende, si taglia e con disprezzo, si uccide. Non è mai la bandiera che conta. L’oro della medaglia è conio e memoria di un mondo che sempre è stato servile: quel mondo da cui molti volevano invece che rinascesse il futuro.
Le cose più grandi, più decisive, si fanno durante la guerra: il clamore, la folla nel mezzo che ha paura e che grida non contano niente, sono solo chiasso e fanghiglia, balocco, poltiglia, e animale da brodo. Lui lo sapeva, come tutti i cavalieri celesti lo sanno, come anche i baroni che però, più pesanti dell’aria, restano a terra a lisciarsi la barba e le mani sul proprio cavallo a gestire gli affari. L’aeroplano era bello, addirittura più bello di quello di prima. Stavolta un motore per ala, due nell’insieme come Abele e Caino. Quattro pale di elica dietro l’ogiva di ognuno, 650 miglia aeronautiche di ferro e metallo e poi l’infinito, come tangenziale la quota.
Però mancava il nemico. Gli eroi, lo sappiamo, quando a loro non rimane nient’altro che affrontare se stessi, generalmente, finiscono male. Anche l’Ulisse, ci descrive Alighieri, lo garantisce Virgilio, s’inabissa in Atlantico, poco oltre la Spagna. Come un cacciatorpediniere che si è sottratto al disarmo.
Dio c’è, anche se non si vede, così raccontavano a scuola in quei tempi di guerra, non come adesso che c’è alternativa: e qui non intendo tra istruzione privata o di Stato, ma del silenzio che spetterebbe al divino. Lui poi lo scriveva regalmente sul diario, da principino: “L’essenziale è invisibile agli occhi”.
La sua mamma si compiaceva, e ne andava anche molto orgogliosa. Così Dio, che è come sempre puntuale, stava in agguato da dietro le nubi. Senza farsi troppo notare. E il mare salato, non l’Oceano di Dante, ma quello più nostro e cordiale davanti Marsiglia, può rivelarsi il deserto più inaspettato. Un’arsura infinita.
In certi frangenti, giustificarsi all’Onnipotente, render conto al destino, l’esser stato visconte, l’infanzia dorata e il lignaggio speciale, non sempre ti può venire in aiuto, assicurarti la prova. Allora sparare nell’aria non serve, tanto più che l’aereo era nuovo e poco avvezzo allo scontro, a reggere gli urti, e non serve nemmeno sdoppiarsi tra cartucce e scrittoio, non conta essere nati di giugno, al tempo del grano, coi Gemelli nel segno. Si può venire sbranati dai morsi, e per sempre restare incompiuti, senza che a separarci nel bene e nel male sia stato un colpo di un vecchio cannone o di un impertinente fucile.
L’eternità, e la vita che è la sua ancella minore, non passa il suo tempo davanti allo specchio, come fa invece la rosa.

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MASSIMO SALVADORI

Nasco a Modena, ma rivendico ascendenze liguri, toscane, venete. Trapiantato a Napoli, rimango uomo di pianura: il grido dei gabbiani è una sorpresa quotidiana che ad ogni giorno e notte si rinnova. Insegno filosofia in un liceo di frontiera, ma i confini, si sa, sono un’invenzione e la realtà riesce anche a superare metafisica e immaginazione. Scrivo quando le parole assomigliano a quel che sento e sono: a volte penso, a volte vivo, il più delle volte devo invece impegnarmi a sopravvivere. Dal 2015 collaboro a LRì, un’esperienza azzurra di amici, amiche e di parole.

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