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Ciao Sanremo!

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L'abbraccio dei vincitori

Caro settantaduesimo Festival di Sanremo, sei finito da qualche ora e già mi manchi.
Non perché tu sia stato un’opera d’arte imperdibile, o il più grande spettacolo del mondo (dopo il Big Bang), sia chiaro. Però è così, ed eccomi qui a cercare di capire il motivo dell’inquietudine strana che mi attraversa già di buon mattino, a giostra appena finita, con vincitori e vinti già archiviati dalla macchina micidiale.
Non sono tempi facili, questo lo sappiamo. La mia generazione di ex ragazzi occidentali, cresciuta officiando la grande religione del rock e, di conseguenza, nel sottile disprezzo del suo fratellino minore, quel pop allegro e spensierato di rango infinitamente più basso ai nostri occhi rigorosi piazzati sulla vetta di una poco sensata roccaforte ideologica, non ha vissuto la guerra. L’ha temuta, rifiutata, ne ha sentito l’odore acre, ristagnante nei racconti dei vecchi ormai estinti, nei film e nei libri letti quando ancora si leggeva, ne ha percepito come un monito costante il terrore, filtrato da immagini tv dove migliaia di disperati morivano sì come mosche, ma sempre a distanza di sicurezza.
Abbiamo vissuto lunghi anni di pace, con qualche impalpabile senso di colpa.
Perciò il momento attuale, il suo morbo inafferrabile, la sua confusione senza santi né eroi, la sua paura fottuta di ricadere negli errori di un passato creduto sepolto per sempre, si è insinuato in noi come un ospite improvviso e velenoso, incrinando senza preavviso le nostre povere certezze e minacciando di brutto una terza età che si profila ora all’orizzonte lunga e insidiosa, fitta di bombe, piogge acide e sentieri dannatamente scomodi, per noi abituati a correre in moto, capelli al vento, su autostrade senza frontiera.
Ecco perché mi manchi e perché ti ringrazio, caro Festival.
La tua settimana di paillettes e luci laser, spettacolo impagabile di arte varia e trasgressioni un tanto al chilo, musica e personaggi improbabili da bruciare come benzina in un sabba infernale, ci ha regalato l’anestetico di una breve, quasi immeritata vacanza, vissuta celebrando istericamente il rito collettivo con amici altrettanto improbabili, popolo virtuale da amare e odiare nella fortezza solitaria dell’ultimo domicilio conosciuto: un display e una tastiera da compulsare disperatamente.
E domani, che faremo domani?

La scenografia dell’Ariston

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