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Il Mengarini

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Ormai se lo ricordano in pochi, il Mengarini. Roba di quarant’anni fa almeno, se non di più. Eppure è al Mengarini che si devono parecchie giornate,sì, lo dico, veramente felici della vita di un sacco di persone. Persone che adesso hanno una certa età: medici, avvocati, architetti, scrittori. Oppure spiantati, equilibristi della vita, padri, vedovi. Persone che magari non ci sono più.

Anche il Mengarini non c’è più. Ha perso la sua battaglia con il progresso, è finito sepolto tra uno svincolo di autostrade urbane e qualche bruttissimo edificio moderno, di uffici. Però la stradetta da cui si entrava al Mengarini, tipico di Roma, è rimasta quella di una volta, stretta e costeggiata da palazzine di un certo tono conviventi con catapecchie di borgata e ciuffi d’erba incolta, che cresce imperturbabile, senza che nessuno se ne occupi.

Il Mengarini era un campo da calcio. Il nostro, campo da calcio. Terra battuta, porte con reti piene di buchi, righe di gesso molto poco visibili, una stamberga dove ti mettevi maglia, pantaloncini e scarpini. Nessuna doccia, forse un buco fetente dove, se proprio ti scappava, facevi la pipì tappandoti il naso.

Il gestore, che noi chiamavamo “capo”, era un bestemmiatore incallito fornito di ceffo pasoliniano. Una sorta di terzo fratello Citti sguaiato, privo del fascino antico del borgataro romano di razza, nonché vero mago della truffa ai danni delle malcapitate squadrette che, per quattro soldi, si adattavano a giocare in un simile ambiente. Sì perché al Mengarini fino all’ultimo momento non sapevi se avresti giocato la tua partita, magari la finale di un torneo che per noi liceali rappresentava in assoluto la cosa più importante sulla faccia della terra. Arrivavi verso le due, col pranzo ancora da digerire, dopo aver prenotato (di persona e verbalmente, s’intende, il “capo” non disponeva certo di un telefono fisso) versando una caparra di mille lire, e trovavi altre due squadre che già si riscaldavano in campo, pronte ad iniziare. Discussioni interminabili, incazzature, si poteva tranquillamente venire alle mani col “capo” o con gli occupanti abusivi, che però avevano le stesse identiche tue ragioni. Perché il “capo” era un precursore dell’overbooking, non si fidava di nessuno e accettava con invidiabile faccia di bronzo svariate prenotazioni contemporanee.

Alla fine il più risoluto prevaleva e finalmente scendeva in campo a giocare, emozionato come un esordiente in Champion’s League.

Al Mengarini ho segnato il mio primo gol. L’ala sinistra crossa dalla sua fascia e io mi butto in avanti di testa, incurante degli occhiali che portavo. Quando ho visto la palla in rete ho provato una gioia indescrivibile, una gioia che raramente si sarebbe ripetuta, nella mia vita, in modo così puro e intenso.

Al Mengarini, io sono stato felice.

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