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Racconti

La piscina di montagna

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Voglio raccontarvi una cosa che mi è capitata tanti anni fa.
Non so perché, ma mi è tornata alla mente in tutti i dettagli solo oggi, dopo quasi cinquant’anni di oblio e galleggiamento tra le mollezze e i sottilissimi fili che costituiscono il cervello, nostra croce e delizia.
Ma andiamo con ordine: mi trovavo, questo è certo, in un’amena località di montagna, in particolare quella, sulle Dolomiti, dove trascorrevo abitualmente la lunga villeggiatura estiva con la mia famiglia.
Famiglia d’origine, intendo. Dal che si deduce facilmente che ero adolescente, avrò avuto sì e no dodici o tredici anni.
Starete pensando che, al momento del fatto, fossi impegnato in qualche noiosa camminata per sentieri impervi, ricchi di genziane, bucaneve o addirittura stelle alpine, magari con l’obiettivo di guadagnare l’agognato rifugio, la baita di legno dove un ruvido montanaro avrebbe servito a me e all’eventuale gioiosa comitiva una bella spianata di polenta, magari col formaggio alpestre e quei funghi porcini che così buoni li trovi solo lassù, no?
Invece quel pomeriggio ero in costume da bagno, in piscina. Giuro. Una di quelle piscine favolose, col tetto avveniristico, in travi di legno, e pareti finestrate con vista su paesini e vallate verdissime. Molto moderna. Purtroppo però non avevano ancora pensato a realizzare il pavimento circostante lo specchio d’acqua limpidissimo con un rivestimento diverso dalle mattonelle, naturalmente blu, che avevano invece scelto.
Mattonelle molto scivolose.
Insomma, eccomi appena uscito dalla piscina tutto gocciolante, ed eccomi accennare, giulivo, una corsetta verso non so cosa, probabilmente le sdraio dove avevo lasciato l’asciugamano e qualche masserizia accessoria.
Non arrivai mai alla sdraio.
Il fatto si svolse in una frazione di secondo: il piede destro perse aderenza e slittò in avanti alla velocità della luce sulle maledette mattonelle blu. Senza soluzione di continuità temporale, la mia testa risuonò come un gong, urtando con la sua parte posteriore contro il pavimento. Nessuno si prese cura di me per un bel po’, d’altra parte la piscina era semideserta, visto che si approssimava l’orario di chiusura.
Quel terribile “boinnngggg” risuonò per parecchi minuti nella mia cavità cranica, al punto che sospettai che fosse davvero vuota, come mi diceva sempre la professoressa Birigozzi.
Adesso però non lo sento quasi più. Qui in clinica sto davvero bene, e se non fosse per le campane della chiesa qui accanto, che la domenica si ostinano a suonare a distesa, chi ci penserebbe più alla piscina di montagna?

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