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Racconti

Il Palazzo, La terrazza

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La terrazza

C’era un altro posto a noi vietato. Ci si arrivava per una scala stretta, due piani più in su di dove si fermava l’ascensore. Per andarci bisognava rubare la chiave che nelle nostre case tenevano nel cassetto della cucina. Era la Terrazza. Una grande, accecante Terrazza. Non c’erano topi, ma uccelli e ragnetti rossi. Un altro pianeta. Correva lungo tutto il Palazzo, più alta di tutte le altre.

Ci prendevamo per mano e guardavamo in basso: non c’erano bordi, non c’era protezione né salvezza, se avessimo voluto fare gli scemi.
Sotto, il viale diventava corto e la gente era talmente piccola che non si capiva se erano uomini o donne, altri bambini o cosa. Indicavamo questo e quello: il vento ci ributtava in bocca le parole, e allora si stava zitti.

Carlo si teneva lontano da quel precipizio e ci chiamava. La sua paura attirava i nostri scherzi in modo naturale. A turno uno di noi si nascondeva e faceva un urlo lunghissimo. Gli altri: “Oddio!! E’ caduto, è caduto!!”. Allora Carlo ci raggiungeva sul bordo, pronto ad aiutare, poveretto, bianco come il pavimento della Terrazza. Ci credeva sempre. Guardava giù, e il morto resuscitava alle sue spalle. Carlo si offendeva e bisognava andarlo a riprendere mentre scendeva le scale con i cosciotti che strusciavano tra loro e gli facevano le gambe a ics. Non ci si sarebbe aspettato da lui che sapesse tutte le parolacce che ci dedicava in quelle occasioni.

Sulla Terrazza le cameriere stendevano i panni. Ma nella parte coi bordi, dove andare era troppo facile. Noi bambini non ci salivamo spesso perché non ci si poteva giocare a nulla.

C’era troppo vento, troppo sole. Si stava sui bordi della nostra Terrazza tenendosi per mano, come si sarebbe stati poi nella vita. Si stava lì a viversi il tempo immobile tra il volare e il restare. Il cuore ubriaco e le gambe ferme. L’amore e la paura, il rischio e l’aria pura.

Molti amori, molte emozioni e scelte mi hanno riportato alla Terrazza. La mano di Maurizio e quella di Rocco che tenevano la mia. Per tenermi o accompagnarmi? Chi lo sa qual è il confine tra protezione e prigione. Non ce lo chiedevamo allora, ce lo siamo chiesti raramente dopo. Gli amori, gli amori accecanti come la Terrazza, hanno continuato a sospendermi tra il vuoto e il volo.

Il portiere

Era una bella giornata, una domenica tranquilla. Daniela era venuta a casa mia dopo pranzo e stavamo preparando Raggio di Luna per il suo matrimonio. Mio padre mi aveva regalato una bambola nera, vestita da squaw. Lui diceva che i neri erano come noi. E che anche gli spazzini erano come noi. Che dovevo giocare con tutti e rispettare tutti. Non credo che lo pensasse veramente, ma quella doveva essere la mia educazione. Un’educazione “moderna”, come tutto quello che gli piaceva: moderno, appunto.

Il signor Antonio, portiere del Palazzo e padre di Riccardo e Rossana, suonò il campanello e chiese di parlare con mia nonna. Il filtro umano Lucia, cane da guardia per vocazione, gli rispose che riposava. Allora il signor Antonio ripiegò su mio nonno, poi su mio padre. Ma tutti riposavano la domenica pomeriggio, dopo le penne al sugo, il pollo arrosto, le pastarelle. Lucia fu spiccia: doveva bruciarsi ancora i peli delle braccia e il suo cattivo fidanzato l’aspettava già all’angolo della strada. Il portiere insisteva. Noi bambine ci affacciammo alla porta, incuriosite. Non alzava mai la voce quell’uomo piccolino. Per un minuto Raggio Di Luna fu dimenticata ai suoi sogni nuziali. Il signor Antonio non era rosso come al solito, ma bianco, e sembrava più magro. Smise di insistere all’improvviso. Da allora chiunque smetta di parlare all’improvviso mi mette in allarme, come se cominciasse a parlare da un’altra parte, dentro di sé, senza che io possa sentire, sapere. Ho paura dei silenzi che ci nevicano addosso quando le cose finiscono.

Lucia chiuse la porta e noi tornammo a istruire Raggio di Luna su come si comportava una buona moglie. Avevo convertito Daniela allo spazio sotto le finestre, e anche quella domenica eravamo in un’isola tra tende e polvere. Era bella la luce che entrava, una luce da giorno di festa. Era bella Raggio di Luna con il suo vestito di pelle e le trecce lucide. Era bella Daniela con i suoi ricci biondi e gli occhi verdi .

Ci fu un’ombra. Ed eravamo tanto immerse nella luce che ci voltammo verso i vetri, stupite dalla sfrontatezza di un improvvisa nuvola. Ma non era una nuvola. Era un uccello nero, grande. Era il signor Antonio che si teneva i lembi del grembiule nero e veniva giù con le gambe aperte, come la coda di un rondone. “Vola…” disse Daniela. “Cade…” dissi io. In quei due verbi c’era tutto quello che ci avrebbe unito per tanti anni, e poi separato.

Ci fu uno scricchiolio, un silenzio e un urlo. E poi il rumore che fa la gente quando, insieme, si trova ad affrontare la morte, la paura, l’incidente, la violenza, la tragedia, il delitto, l’ingiustizia o quello che invece crede lo sia. Gli stessi rumori da quando è nato il mondo. Ci sarà stato un signor Antonio davanti a qualche caverna, alla corte di Macbeth o a quella del Re Sole. Dovunque, comunque e chiunque, la colonna sonora della sua piccola disgrazia è suonata sempre allo stesso modo.

Perché il portiere del Palazzo fosse venuto giù i grandi sembravano saperlo. E anche Riccardo e Rossana. La portiera, invece, continuò a piangere un “perché? perché?” anche al funerale. Mia nonna sibilò un “perché!” che, facendosi largo col suo punto esclamativo tra i punti interrogativi della portiera, sbaragliò ogni dubbio sul chi avesse la colpa del volo del signor Antonio.

Qualche tempo dopo quel che rimaneva dei portieri tornò in Umbria.

Ne arrivarono di nuovi, giovani e senza bambini. Con Riccardo e Rossana ci salutammo a monosillabi, c’era dolore nel sapere che non ci saremmo visti più. Vedendomi triste , con la sensibilità da ramarro che l’animava, Lucia mi disse: “Meglio che non ci stanno più quelli. I figli delle persone perbene non frequentano i figli delle puttane”.

Ci chiedevamo, noi bambini, cosa facessero le puttane. Un pomeriggio venne in Cortile il fratello di Rocco e ce lo spiegò. Ci disse anche che la storia di Riccardo e Rossana era molto triste, perché la madre, quando riceveva i “clienti”, li faceva uscire da casa. Loro e il marito che, ci disse, guadagnava troppo poco. Maurizio, col suo collo pulito, chiese come le sapeva, lui, quelle cose. “Eh. Ci sono andato” gli rispose. I maschi cominciarono a ridacchiare, mentre noi femmine ci guardammo senza sapere se dovevamo farlo anche noi o no.  (continua)


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