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ECONOMIA DI GUERRA?

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Nel dibattito al Parlamento si è parlato più volte all’economia di guerra. Anche Mario Draghi nel suo intervento sul Financial Time l’ha citata, anche se solo per dire che in alcune occasioni, come appunto in caso di guerra, i finanziamenti all’economia vanno fatti aumentando il debito pubblico.
Poiché a me non piace usare questa terminologia (“economia di guerra”) per descrivere l’attuale situazione economica, vorrei fare alcune precisazioni.
Si parla di economia di guerra quando il sistema economico di un paese deve adeguarsi alle necessità della guerra, cioè avere risorse per gli armamenti, il mantenimento e la mobilitazione degli eserciti, organizzare la produzione a sostegno della guerra stessa. E’ indubbio che di fronte alla situazione che si è creata per la pandemia di coronavirus ricorrono condizioni molto simili: bisogna avere risorse finanziarie per approntare ospedali e tutte le strutture necessarie alla cura della popolazione; mantenere e mobilitare il personale necessario, cioè medici, infermieri, personale addetto ai rifornimenti, personale per le strutture mobili, polizia e carabinieri ( anche esercito) per il controllo dei movimenti, dei flussi di merci e mantenimento della legalità. E terzo, organizzare la produzione necessaria alla sopravvivenza della popolazione. Quindi è giusto fare rifermento a un concetto di eccezionalità, ma nel contempo io penso che si esageri con la similitudine, perché a differenza di quanto accade in caso di guerra, la finalità delle operazioni di ordine economico non mirano a distruggere e/o non essere distrutti. Non si creano armi per bombardare i beni e le attività produttive del paese con cui si confligge, o perdifendere le nostre strutture produttive da possibili bombardamenti.
Con questo cosa voglio dire? Che la nostra dovrebbe chiamarsi Economia di sospensione. Noi sospendiamo il ritmo produttivo per uscire da una pandemia. Ciò significa che ci ritroveremo con una crisi economica vasta perchè le imprese non hanno prodotto, il commercio non ha venduto, il turismo non c’è stato, la cultura non si è espressa. Quindi,quando la pandemia sarà debellata, come per incanto, come dopo il risveglio della principessa per un bacio ricevuto, le imprese potrebbero rimettersi in funzione, i negozi aprire, i musei riempirsi e le camere d’albergo essere arieggiate. Ma non voglio essere fraintesa: la crisi ci sarà (anzi già c’è) e sarà pesantissima anche perché il tempo in economia è un fattore produttivo, e un tempo sospeso riduce in molti modi il valore. Inoltre i tempi di uscita dalla pandemia presumibilmente non saranno uguali nel mondo creando code e allungamenti per un ritorno alla velocità di circolazione dei fattori richiesti da un’economia sana.
Ciò che invece mi preme sottolineare è che la crisi si manifesta e sempre più si manifesterà nel debito, il debito di chi non avendo ricevuto uno stipendio non ha potuto pagare l’affitto e il debito di chi non ha ricevuto l’affitto che non può pagare le tasse, il debito dello stato che ha comperato i ventilatori senza poter stampare soldi ma chiedendoli in prestito sul mercato, il debito delle banche che non hanno fatto girare i soldi…
Ecco perché è interessante sottolineare che Draghi fa riferimento soprattutto a chi deve assumersi questa massa di debito. Fare debito pubblico finchè è necessario. Ma siccome i debiti devono normalmente essere ripagati è chiaro che l’enorme massa di debito che si creerà richiede una soluzione. E’ ciò di cui stanno discutendo i governi e soprattutto l’UE.
Ma certamente, sebbene la soluzione che verrà trovata non è facile da capire fin da subito, perché il fatto di essere le maggiori economie del mondo ad essere state sottoposte a questa Economia di sospensione, potrebbe creare la necessità di una diversa visione della finanza. Anche contro la resistenza endemica dei vari paesi del fronte del Nord, occorrerà immaginare soluzioni innovative. Ad esempio c’è chi (Tabellini e Giavazzi, La voce.info) propone l’emissione di titoli non rimborsabili ma negoziabili sul mercato, emessi dagli stati ma acquistati dalla BCE. Anche sul piano della produzione si dovrebbe pensare a innovazioni non solo tecnologiche, ma di impatto: perché ad esempio, visto che in un momento di crisi il commercio globalizzato si è arreso di fronte agli interessi nazionali, non pensare a promuovere per ogni tipologia di produzione (soprattutto se a basso contenuto di capitale) una specie di golden share nazionale? Esempio: le mascherine le producono Cina, Turchia ecc, ma una quota del fabbisogno nazionale deve essere prodotta in Italia e, per garantire il produttore dalla concorrenza sui prezzi, sarà obbligatorio nei bandi degli ospedali riservare una quota degli acquisti per imprese nazionali. Si dirà: ma questo è protezionismo? Sì, dagli egoismi che il Covid 19 ci ha mostrato in presa diretta. Costerà molto di più alla sanità? Forse, ma si risparmierà sui sussidi perché tanti artigiani potranno attivare queste produzioni.
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LIA MIGALE

è scrittrice ed economista. Tra le sue pubblicazioni non scientifiche i racconti In un altro luogo (1996) e il romanzo Malamore (2001) – entrambi per Empirìa – e La donna del diavolo (Voland 2009) e Piccola storia del femminismo in Italia (Empirìa 2016).

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