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LA FINE DELLA SOCIALITÀ?

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In questi giorni, si parla tanto dell’importanza di praticare il cosiddetto “social distancing” negli Stati Uniti. Non è un caso che l’abbiano coniata gli Americani un’espressione che definisca questo mantenere le distanze che siamo chiamati a praticare quando usciamo dai nostri bunker. Sì, perché da noi ancora, dopo settimane, si fatica a dare un nome unico alla stessa pratica: “distanziamento interpersonale,” distanziamento sociale, “stare lontani.”  Sembra infatti che in Italia, venuto meno il perimetro in cui pratichiamo normalmente la socialità, abbiamo addirittura smesso di essere sociali. Abbiamo dunque smesso di salutare: fuori col cane a passeggio prima di incrociare un’altra persona, addirittura un conoscente, se possibile attraversiamo la strada, abbassiamo lo sguardo, quasi scappiamo. Alterati giocoforza gli spazi dedicati all’interazione con gli altri, siamo tornati ad essere forestieri, guardinghi, sconosciuti.  Cos’è successo? Beh, lo sappiamo tutti. Il Coronavirus. Ma quello che cominciamo a vedere solo adesso è il conseguente terremoto nelle nostre abitudini di socialità. Compensiamo questa alterazione degli spazi comunicativi gettandoci a capofitto in maratone su Face Time, flash mob coordinate via WhatsApp e video conferenze via Zoom tra colleghi, o addirittura coi compagnetti di classe gestite da genitori sull’orlo di una crisi di nervi, tutto nell’illusione che la tecnologia ci restituisca un po’ di quel contatto di cui abbiamo dannatamente bisogno.  Introdotta dall’antropologo americano Edward T. Hall nel 1963, la prossemica ci dice come usiamo lo spazio e comunichiamo con lo spazio con gli altri nelle diverse culture. Hall identifica quattro “aree” che vengono tipicamente riservate nella cultura occidentale alla comunicazione a seconda del rapporto che si ha con le persone con cui interagiamo: la zona intima, personale, sociale e pubblica. Le dobbiamo immaginare come dei cerchi al centro dei quali ci stiamo noi con il nostro corpo. In Italia, come nella cultura mediterranea in genere, una “cultura ad alto contatto,” le persone tendono a stare molto più vicine che in quelle cosiddette “a basso contatto.” Tradotto in termini prossemici, quello che da noi (in tempi normali) è il perimetro riservato alla socialità, nella cultura statunitense è uno spazio riservato solo alle interazioni personali con gli amici e familiari. Siamo allora strani in fila fuori dai supermercati, distanti un metro e più gli uni dagli altri. Non sappiamo dove guardare perché in tempi normali, diciamolo, staremmo appiccicati! L’ho scoperto abitando negli Stati Uniti e abituandomi col tempo a mantenere le loro distanze sociali. Ma anche nell’espressione sconvolta di un amico americano (newyorkese, si badi bene, non dell’Iowa) dopo aver fatto la fila ad un concerto rock in Italia per prendersi una birra. Si era sentito… contaminato, così mi aveva detto. Tale vicinanza lo aveva messo seriamente a disagio. Lo stesso disagio che proviamo oggi noi a stare lontani perché ciò che era normale, adesso ci contamina davvero.

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Image from Case Work ©
https://casework.eu/lesson/proximity-and-distance/

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SILVIA GIAGNONI

Sono nata a Prato nel 1977. Mi sono laureata in scienze della comunicazione all’Università La Sapienza di Roma. Ha scritto una tesi di laurea sulle rappresentazioni delle donne nel rock con un’etnografia sulle ragazze che ascoltano l’heavy metal. Mentre abitavo in Florida, ho girato un documentario e scritto una tesi di dottorato sul Christian rock. Mi sono ritrovata cervello in fuga in America negli anni di Bush e poi di Obama e soprattutto mi sono scoperta “immigrata” e attivista. Ha scritto un reportage narrativo su uno dei più importanti movimenti sociali degli ultimi anni: quello della Coalizione of Immokalee Workers, i braccianti della Florida. Dalla scoperta di essere “diversa,” una giovane donna che insegna nella culla del movimento dei diritti civili è nato il mio libro sugli immigrati in Alabama. Nei quindici anni che ho vissuto negli Stati Uniti ho insegnato giornalismo, media studies e cinema all’università. Durante la mia permanenza in Alabama, sono andata anche in cerca di Harper Lee sapendo di trovarne solo tracce. Nel 2018, sono tornata in Italia dove continuo ad insegnare scienze della comunicazione presso college americani. Ancora non mi sono abituata a sentirmi dire, che-sei-tornata-a-fare. Intanto, ho un romanzo in uscita per Iacobelli, e quello che sto scrivendo è ambientato in Alabama.

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